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La decisione arriva dopo anni di pressioni da parte di investitori e organizzazioni per i diritti umani, che denunciavano presunti legami con il lavoro forzato e violazioni dei diritti umani nella regione, accusa sempre respinta sia da Volkswagen che da Pechino.
L’impianto, aperto nel 2013, aveva perso progressivamente importanza: da anni non produceva più veicoli, limitandosi al controllo qualità e alla consegna. L’operazione di vendita, il cui valore non è stato ancora reso noto, è stata giustificata da Volkswagen per ragioni economiche, ma segna anche l’uscita definitiva della casa dallo Xinjiang, dove non manterrà più alcuna presenza diretta.
La cessione si inserisce in un quadro di grandi sfide per Volkswagen, che sta affrontando una perdita di quote di mercato in Cina (scese dal 18% nel 2018 al 14,2% nel 2023) e una concorrenza sempre più serrata da parte di marchi locali come BYD, ora leader nel mercato cinese. Per rilanciarsi, Volkswagen ha siglato nuove partnership strategiche, tra cui l’estensione della collaborazione con Saic fino al 2040 e l’investimento di 2,5 miliardi di euro nel centro di produzione e innovazione a Hefei, puntando sul settore cruciale dei veicoli elettrici.
Questa operazione arriva inoltre in un momento di tensioni crescenti tra Cina e Unione Europea, acuite dai dazi anti-sovvenzioni imposti dall’Ue sulle auto elettriche cinesi. Volkswagen si trova così a dover bilanciare la necessità di rimanere competitiva nel più grande mercato automobilistico mondiale con le pressioni morali e politiche per allinearsi a standard etici e sostenibili.
Parallelamente, il gruppo sta affrontando una crisi interna in Germania. I sindacati, guidati da IG Metall, stanno minacciando scioperi a oltranza in seguito al fallimento delle trattative per un piano di riduzione dei costi che potrebbe includere la chiusura di stabilimenti e licenziamenti. Dopo mesi di negoziati senza risultati, i lavoratori tedeschi, fino ad ora in attesa di un accordo, si dicono pronti a fermare la produzione per fare pressione sulla dirigenza.
La vendita dell’impianto nello Xinjiang è stata accolta positivamente da investitori come Deka Investment, che da tempo chiedevano un’uscita dalla regione. Janne Werning, di Volkswagen Union Investment, ha dichiarato che la decisione rappresenta "un passo atteso da tempo, che dimostra che i diritti umani non sono negoziabili". Tuttavia, Werning ha anche sottolineato come la debole governance aziendale resti il tallone d’Achille di Volkswagen, un problema che rischia di aggravarsi in un contesto di crescenti tensioni globali.
Volkswagen si trova, quindi, di fronte a due principali sfide: in Cina deve riconquistare la fiducia dei consumatori in un mercato sempre più orientato verso l’elettrico, mentre in Germania deve affrontare le richieste dei lavoratori per garantire stabilità e sicurezza.