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Sottoterra si calcola ci siano ancora riserve di petrolio per oltre 300 miliardi di barili, ma se giri in strada non trovi benzina da nessun distributore di carburante: è la situazione shock che sta vivendo il Venezuela, che ha visto crollare negli ultimi tempi le quote di estrazione a valori così bassi che non registravano da oltre settant’anni.
Secondo quanto riferisce Bloomberg, nel paese latinoamericano - dove peraltro vive una numerosa colonia di persone di origine italiana - a maggio le estrazioni medie giornaliere sono state di 645.700 barili al giorno, ma nei giorni passati sono crollate a 374.000, ben al di sotto della metà di quanto indicato nei piani produttivi della PDVSA, la compagnia petrolifera statale venezuelana.
Una situazione estrattiva critica, con circa 50 dei 77 pozzi inattivi, e con alcuni dei restanti capaci di riempire solo 500 barili di petrolio al giorno: musica ben diversa rispetto ai tempi d’oro della presidenza di Hugo Chavez, quando la produzione quotidiana era attestata intorno ai 3 milioni di barili.
Non c’è dubbio che la crisi economica che colpisce il Venezuela abbia la principale causa nel blocco commerciale imposto dagli USA, che vorrebbero un cambio radicale alla guida del Paese; ma il tentativo di imporre Juan Guaidò al posto di Nicholas Maduro sembra ormai tramontato lasciando il Paese in una sorta di stallo, ed a aggravare la situazione si è aggiunta da qualche mese la pandemia.
Così, mentre l’economia barcolla sotto i colpi della iperinflazione, per i cittadini venezuelani si annunciano tempi duri: al mercato nero, la benzina è offerta a 9 dollari al litro, equivalente al salario medio di due mesi di un lavoratore di Caracas.
Per fortuna del Venezuela esiste la solidarietà internazionale: l’Iran - altra nazione peraltro sulla lista nera di Trump - ha portato a Caracas navi cargo con 1,5 milioni di barili di petrolio.
Una semplice boccata d’ossigeno, destinata a soddisfare le necessità per un paio di settimane.
Meglio che niente, in attesa che qualcosa cambi.