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Uber, qualcosa di muove Oltremanica: una sentenza della Corte Suprema, destinata senz’altro a fare letteratura, ha stabilito che gli autisti del colosso di San Francisco vanno considerati a tutti gli effetti lavoratori dipendenti e non, come finora preteso dall’azienda di servizio automobilistico, lavoratori autonomi.
La sentenza è definitiva e pertanto la piattaforma digitale americana che fornisce autisti a chiamata non potrà più più fare appello contro di essa: per questo la decisione dei giudici inglesi può cambiare l’economia delle piattaforme digitali, iniziando un potenziale effetto domino che presto potrebbe coinvolger tutte le forme legate al lavoro gestito da remoto, ad iniziare dalla categoria dei rider urbani che fanno consegne in città su bici e scooter e che da tempo hanno iniziato a rivendicare i loro diritti come lavoratori, chiedendo l’applicazione delle tutele previste dalla vigente legislazione in materia.
Nelle pagine della sentenza si riscrive la prospettiva di vita di migliaia di autisti inglesi legati ad Uber: ora hanno diritto ad un salario minimo, al riposo pagato per malattia e al pagamento delle ferie, situazione che comporterà all’azienda americana un’esborso di compensazione di almeno dodicimila sterline per ogni conducente.
Nel dettaglio, i giudici hanno stabilito, sgombrando il campo da ogni possibile ambiguità, che esiste anche per Uber un «rapporto gerarchico» tra datore di lavoro e subordinati, che rende necessaria «una protezione legale» per le persone sottoposto al controllo da parte dell’azienda.
Diversi, secondo la Corte, i motivi che portano a definire gli autisti come «lavoratori»: la remunerazione è fissata da Uber; è la stessa azienda ad imporre i termini dell’accordo con cui si diventa autisti, senza possibilità di contrattazione per i lavoratori; malgrado i lavoratori abbiano la libertà di decidere quando e dove lavorare con la loro macchina, una volta «loggati» alla piattaforma Uber la possibilità di scelta è limitata ed Uber controlla anche attraverso algoritmi i loro comportamenti, arrivando alla sospensione dell’operatività nel caso di rifiuto a prendere in carico una prenotazione, modalità che per i giudici si prefigura come punitiva; infine, Uber controlla e limita al massimo i rapporti tra autisti e clienti, mentre per la Corte è “tempo di lavoro“ non solo quello trascorso per portare il cliente a destinazione ma anche quello passato in attesa di un contatto.
La sentenza inglese potrebbe portare ad un’accelerazione nelle vertenze in corso in Italia che riguardano non soltanto la piattaforma Uber ma anche diverse agenzie per le consegne a domicilio, di solito molto restie a concedere riconoscimenti salariali o tutele ai loro dipendenti.
Che da oggi, alla luce della sentenza inglese, possono essere chiamati proprio così.