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La storia delle monoposto da Gran Premio ha avuto una autentica svolta quando sono entrate in vigore le nuove norme che portavano a 3000 cm3 la cilindrata dei motori aspirati, in sostituzione del precedente limite di 1500 cm3, valido fino al termine della stagione 1965. Le nuove vetture diventavano repentinamente molto più potenti e le gare si annunciavano più spettacolari.
Per la stagione 1966 ci si aspettavano grandi risultati da parte di chi già aveva dei motori di 3000 cm3, come la Ferrari, che impiegava il suo V12 con ottimi risultati nelle gare delle vetture Sport, e la Maserati, che poteva rispolverare un V12, rivisitandolo come opportuno. Altri costruttori si sono dati da fare con progetti interamente nuovi. La Honda e la Gurney-Weslake avevano scelto di realizzare dei motori a dodici cilindri mentre la BRM aveva pensato addirittura a un 16 cilindri con architettura ad H. Il meno accreditato per il successo finale appariva l’australiano Repco, destinato alla Brabham.
Si trattava infatti di un V8 con una semplice distribuzione monoalbero, due valvole per cilindro e un basamento che, anche se debitamente modificato, era pur sempre quello di una vettura di serie! E invece proprio questo motore semplice, affidabile e facilmente sfruttabile dal pilota (la potenza di punta non era granché ma la curva di coppia aveva un andamento molto favorevole) si è imposto nel mondiale, e per due anni consecutivi! A disegnare questo V8 è stato il grande tecnico Phil Irving, che aveva lavorato per molto tempo in Inghilterra sia come progettista (alla Vincent) che come giornalista tecnico, scrivendo libri divenuti leggendari.
Il motore schierato nel 1966 aveva le teste del tipo crossflow; nel 1967 sono diventate uniflow, con condotti di aspirazione anche in questo caso pressoché verticali e scarichi al centro della V formata dalle due bancate dei cilindri, e il motore ha adottato camere di combustione Heron, ricavate nel cielo dei pistoni. Il comando della distribuzione era a catena e il basamento in lega di alluminio con canne cilindri riportate a secco “proveniva” dalla Oldsmobile F 85 Jetfire; a rinforzarlo inferiormente provvedeva una piastra di acciaio. Nella stagione 1967 è stato impiegato un nuovo basamento, di disegno analogo, appositamente realizzato dalla Repco. Le misure di alesaggio e corsa erano 88,9 x 60,3 mm. Nel 1966 questo V8 erogava 300-310 CV a 7800-8000 giri/min. L’anno successivo la potenza è salita a circa 320 CV a poco più di 8000 giri/min. Il Repco è stato l’unico motore monoalbero e l’ultimo con comando della distribuzione a catena a imporsi nel mondiale di Formula Uno.
Se la Repco aveva scelto la strada della massima semplicità, la BRM aveva indirizzato i suoi sforzi in direzione opposta, optando per un frazionamento su sedici cilindri e per una architettura ad H. In pratica, si trattava di due motori a otto cilindri orizzontali contrapposti piazzati uno sopra l’altro in un unico basamento. La decisione non era illogica: la casa inglese infatti aveva un eccellente V8 di 1500 cm3 (che nel 1965 erogava oltre 200 CV) e l’idea era quella di “raddoppiarlo” e di usare gli stessi organi mobili principali, che già avevano dato prova della loro validità. Nello sviluppo di questo motore ad H, disegnato da Geoff Johnson con la supervisione di Tony Rudd, si sono incontrate molte difficoltà, che hanno comportato svariate modifiche anche di notevole entità. La potenza era considerevole, con circa 380 CV a 10500 giri/min. Il motore aveva un peso elevato e una affidabilità men che mediocre. Nel 1966 si è comunque imposto nel GP degli USA. Le misure di alesaggio e corsa erano 69,8 x 48,9 mm.
Ogni testa “serviva” due bancate di cilindri, disposte una sopra l’altra. Per la distribuzione si adottava il classico schema bialbero, con due valvole per cilindro (dunque, 32 in totale) e ben otto alberi a camme (cioè quattro per ogni testa), comandati mediante ingranaggi. Le canne dei cilindri, in acciaio, erano del tipo riportato in umido con bordino di appoggio superiore. I due alberi a gomiti erano collegati da ingranaggi collocati nella parte posteriore del motore. La sfortunata carriera di questo interessantissimo H 16 è terminata all’inizio del 1968; la BRM aveva già da tempo deciso di concentrare gli sforzi sul suo nuovo V12…
In previsione della entrata in vigore della nuova F1 di 3000 cm3 la Cooper ha individuato nel Maserati V12, che aveva esordito nel 1957 con una cilindrata di 2,5 litri, il motore per la sua nuova monoposto. Lo stesso grande tecnico che lo aveva progettato, cioè l’ing. Giulio Alfieri, ha provveduto a rivisitarlo come opportuno in vista del nuovo impiego. L’alesaggio è passato da 68,7 a 70,4 mm e la corsa da 56 a 64 mm. Questo imponente motore con distribuzione bialbero era caratterizzato da condotti di aspirazione downdraft (che passavano tra i due alberi a camme, nella parte centrale di ogni testa) e aveva i sette cappelli di banco fissati con quattro prigionieri ciascuno. Le due valvole di ogni cilindro formavano tra loro un angolo di 78° e venivano richiamate da molle a spillo. Le canne dei cilindri venivano direttamente lambite dal liquido di raffreddamento solo per un terzo circa della loro lunghezza. La potenza era dell’ordine di 350 CV a un regime lievemente superiore a 9000 giri/min. Al termine della stagione 1966 la Cooper-Maserati si è imposta nel GP del Messico e all’inizio dell’anno successivo ha conquistato il GP del Sud Africa. A Monaco nel 1967 è apparsa una nuova versione di questo V12 munita di tre valvole per cilindro (due di aspirazione e una di scarico) e con nuove misure di alesaggio e corsa (75,2 x 56 mm). La potenza è passata a circa 380 cavalli a poco meno di 10.000 giri/min. Il motore però è rimasto grosso e pesante e di vittorie nei Gran Premi non ne sono arrivate più. La Cooper si è ritirata dalle competizioni alla fine del 1968.
Per la stagione agonistica 1966 la Honda ha realizzato lo RA 273, un V12 che mostrava ancora forti legami con la scuola motociclistica. L’albero a gomiti era infatti composito e lavorava interamente su cuscinetti a rotolamento. Tanto la presa di moto quanto il comando della distribuzione (a ingranaggi) erano collocati centralmente. Le valvole erano quattro per cilindro e i supporti di banco erano otto. Questo motore, che aveva un alesaggio di 78 mm e una corsa di 52,2 mm, erogava una potenza dell’ordine di 400 cavalli a 10.000 giri/min. Mentre la soluzione classica per quanto riguarda i motori V12 prevede un angolo di 60° tra le due bancate di cilindri, in questo caso si adottava un angolo di 90°, che consentiva di avere più spazio per gli scarichi, che erano rivolti verso l’interno (passavano cioè tra le due teste).
Da questo motore è derivato lo RA 300 del 1967, che si è imposto nel GP d’Italia. Per la stagione successiva il motore ha subito una profonda rivisitazione, che tra l’altro ha comportato nuove teste, con condotti cross-flow disposti in maniera convenzionale (scarichi esterni e condotti di aspirazione interni, ossia al centro della V formata dalle due bancate di cilindri). Spiccavano l’impiego di bilancieri a dito al posto delle più usuali punterie e di barre di torsione per il richiamo delle valvole. Nello stesso anno ha fatto la sua comparsa, in una sola gara, lo sfortunato RA 302, con otto cilindri a V di 120° e raffreddamento ad aria.