Tecnica e storia: l'evoluzione dei pistoni (Seconda parte)

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L’ottimizzazione della geometria e i sistemi per limitare la dilatazione termica
24 gennaio 2019

Con la rapida affermazione dei pistoni in lega di alluminio, negli anni Venti si è posto il problema di come contenere la variazione dimensionale di questi componenti determinata dal passaggio dalla temperatura ambiente a quella di regime. A causa della forte differenza tra i coefficienti di dilatazione dei materiali delle parti accoppiate, per ottenere il corretto gioco di funzionamento a caldo quello a freddo doveva essere molto elevato. Le conseguenze erano costituite da una forte rumorosità meccanica (il cosiddetto “scampanio” del pistone), ben avvertibile dopo l’avviamento del motore.

Una strada per porre rimedio a questa situazione, limitando in una certa misura la dilatazione del mantello, era quella di ridurre la temperatura di quest’ultimo una volta a regime ostacolando il passaggio del calore proveniente dalla testa (cioè il cielo più la zona dei segmenti). Sono così stati realizzati pistoni nei quali la testa era in larga misura separata dal mantello grazie a due ampi tagli orizzontali praticati in corrispondenza dell’ultima cava, che venivano anche sfruttati per il passaggio del lubrificante asportato dal segmento raschiaolio. I pistoni di questo tipo hanno avuto una buona diffusione fino all’inizio degli anni Ottanta.

Un’altra soluzione prevedeva un intaglio quasi verticale praticato nel mantello dal lato opposto a quello di spinta (cioè quello che preme contro la canna durante la corsa di espansione). In questo modo al mantello stesso veniva conferita una notevole elasticità e una parte dell’espansione determinata dall’aumento di temperatura veniva “assorbita” dalla riduzione di larghezza dell’intaglio. Pure questa soluzione ha avuto larga utilizzazione nei motori di serie. Sono stati realizzati anche diversi pistoni nei quali l’intaglio “quasi” verticale si collegava a uno di quelli orizzontali esistenti a livello dell’ultima cava.

Qualunque sia lo schema adottato, gli intagli indeboliscono la struttura e per questo motivo i pistoni che li impiegavano sono stati utilizzati solo in motori di serie di potenza specifica non elevata.

Per limitare l’aumento del diametro del mantello a caldo l’americano Nelson attorno alla metà degli anni Venti ha escogitato un sistema innovativo e sicuramente valido. L’idea alla base del suo brevetto era semplice e logica: incorporare nel pistone due placchette di un metallo a coefficiente di dilatazione molto ridotto, in grado di ostacolare la dilatazione a caldo dell’alluminio. Va ricordata anche una variante (di minor successo) nella quale addirittura la testa era separata dal mantello e veniva collegata ad esso esclusivamente per mezzo delle due placchette.

Dalla prima soluzione proposta dal tecnico americano nel corso del tempo sono stati sviluppati svariati schemi di notevole interesse, alcuni dei quali hanno avuto per lungo tempo una grande diffusione. In molti casi le placchette, incorporate all’atto della fusione, venivano impiegate in pistoni dotati di intagli termici mentre altre volte tali intagli non erano presenti affatto.

Si sono così affermati i pistoni con inserti, nei quali questi ultimi potevano essere continui o discontinui e venire disposti in varie maniere. In alcuni casi si sfruttava un vero e proprio “effetto bimetallica” mentre in altri addirittura vi era un inserto continuo (talvolta si trattava di un vero e proprio anello) che cingeva una ampia zona del mantello in lega di alluminio in modo da ridurne efficacemente la dilatazione. Per indicare i diversi tipi di pistoni con inserti sono stati impiegati nomi come Autothermic (dalla metà degli anni Trenta), Autothermatic e via dicendo. Il materiale impiegato per realizzare gli inserti in origine era la lega Invar (ferro più 36% di nichel), dal coefficiente di dilatazione prossimo a zero; in seguito però molto spesso è stato utilizzato l’acciaio.

La distribuzione delle temperature nei pistoni non è uniforme. La parte alta, lambita direttamente da gas caldissimi, lavora a temperatura più elevata di quella inferiore, e quindi si dilata in misura notevolmente maggiore. Poiché l’obiettivo era quello di ottenere una forma realmente cilindrica una volta a regime, i tecnici hanno si sono a suo tempo resi conto che tale obiettivo poteva essere raggiunto solo dotando il pistone, a freddo, di una geometria particolare, studiata tenendo conto delle diverse temperature raggiunte nelle varie zone (e quindi delle differenti dilatazioni). La testa, ove si trovavano le cave dei segmenti, doveva avere un diametro sensibilmente inferiore rispetto al mantello e a temperatura ambiente quest’ultimo doveva avere una forma all’incirca troncoconica, dato che la sua parte superiore si dilatava in misura maggiore rispetto a quella basale. Rapidamente poi sono state sviluppate geometrie complesse, con il mantello costituito da più sezioni troncoconiche e dal profilo talvolta leggermente arcuato. Da diversi anni a questa parte il profilo del mantello dei pistoni (come del resto il loro disegno complessivo) viene definito al computer.

Nei pistoni anche le masse non sono distribuite in maniera omogenea. La testa ha un considerevole spessore perché il cielo deve sopportare la pressione dei gas e le pareti laterali devono alloggiare le cave per i segmenti. Una notevole quantità di materiale è concentrata nelle portate per lo spinotto, che devono fornire a quest’ultimo una superficie di lavoro di adeguata estensione (onde evitare pressioni troppo elevate) e attraverso le quali si trasmettono le forze, spesso imponenti, che il pistone invia alla biella e viceversa.

A causa di questa distribuzione delle masse il pistone si dilata di più nella direzione dell’asse dello spinotto e di meno a 90° rispetto ad essa. Per tale ragione a partire dalla seconda metà degli anni Trenta si è diffusa la pratica di impartire ai pistoni una forma ellittica (in sezione a 90° rispetto all’asse del cilindro), con asse principale perpendicolare a quello dello spinotto. In questo modo a caldo la dilatazione fa sì che venga raggiunta una perfetta circolarità (o almeno ci si avvicini fortemente ad essa). Pure questa soluzione si è affermata universalmente.

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