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A maggio in Sicilia di solito fa già molto caldo, soprattutto quando tira lo scirocco, quel vento forte e rovente che dall’Africa raggiunge le coste del sud portando con sé la sabbia rossa del Sahara. Rossa, più o meno come il sangue che verseranno il 23 maggio del 1992 il giudice Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro, i poliziotti della sua scorta.
Giovanni Falcone era un giudice molto ostinato: il suo collega e amico Paolo Borsellino, che morirà due mesi dopo nella “strage di via D’Amelio”, gli aveva detto poco tempo prima: «Giovanni, ho preparato il discorso da tenere in chiesa quando ti avranno ammazzato. In questo mondo ci sono tante teste di minchia. Teste di minchia che tentano di svuotare il Mediterraneo con un secchiello, quelli che sognano di sciogliere i ghiacciai del Polo con un fiammifero. Ma oggi, signore e signori, davanti a voi, in questa bara di mogano costosissima, c’è il più testa di minchia di tutti. Uno che si è messo in testa, niente di meno, di sconfiggere la mafia applicando la legge».
Quel 23 maggio 1992 Giovanni Falcone arriva all’aeroporto di Palermo-Punta Raisi. E’ un sabato. Proviene da Roma, da dove è partito a bordo di un aereo dei servizi segreti. Lo attendono tre Fiat Croma blindate e sei agenti. E’ sabato, come detto, è tornato nella sua Sicilia dopo una settimana di lavoro, evidentemente si sente a casa, anche se i suoi nemici giurati, quelli che lo vogliono morto, vivono intorno a lui.
Così, chiede e ottiene dai suoi protettori di poter guidare la Croma bianca verso la sua casa di Palermo. Come una persona normale, tanto che accanto a lui vuole Francesca. E’ una sua abitudine quella di concedersi di tanto in tanto di guidare l’auto blu: del resto, come dire di no al giudice che vuole soltanto evadere un po’ dalla vita blindata che conduce ormai da anni?
Lo sapevano entrambi che con le loro indagini nel pool antimafia e dopo le condanne a ben 460 mafiosi a conclusione del maxiprocesso in cui erano stati protagonisti, anche loro si erano condannati a morte. La mafia di allora era una “Cosa Nostra” molto violenta e plateale nelle sue dimostrazioni di forza. Uccideva in piazza, cercava le telecamere affinché il suo messaggio arrivasse a tutta Italia. Voleva costringere lo Stato ad arrivare a un compromesso.
La mafia degli anni ‘80 e ‘90 ha nel mirino soprattutto giudici, uomini delle forze dell’ordine e politici. Vuole il clamore, tanto che pianifica un’attentato, poi sfumato, anche al giornalista Maurizio Costanzo e nel 1993 piazza autobombe a Firenze, Roma e Milano, tutte in luoghi molto frequentati del centro.
Pochi minuti dopo, alle 17.58 del 23 maggio 1992 Falcone e le persone che gli stanno vicino vengono investite da un’esplosione provocata da più di 500 kg di esplosivo che i sicari di Cosa Nostra, su mandato del boss Totò Riina, hanno collocato in un canale di scolo che corre sotto l’autostrada. Paolo Costanza, l’agente che prende posto sul divano posteriore della Croma guidata da Falcone, rimane miracolosamente illeso.
Quel 23 maggio del 1992 è il giorno della “strage di Capaci”. Muore il giudice coraggioso e la sua compagna, muoiono tre uomini della sua scorta. Ventitre i feriti, tra cui alcuni automobilisti che si trovavano per sfortuna vicino al punto dello scoppio. Sette le auto distrutte. Quel tratto della A29, l’autostrada che porta da Mazara del Vallo a Palermo sfiorando l’aeroporto di Punta Raisi, è irriconoscibile. La deflagrazione apre una voragine lunga 30 metri e profonda 8, per un centinaio di metri l’asfalto non c’è più, i guard rail sono ormai lamiere contorte, cumuli di macerie dappertutto. Sembra una scena da guerre mediorientali, di quelle che si vedono ogni sera al TG. Invece è accaduto in Italia.
Tutta la nazione piomba nel lutto e la Sicilia si scopre più onesta di quello che si pensava. La ricostruzione dell’autostrada avviene in tempi brevi. Qualcuno dipingerà poco dopo il guard rail con vernice rossa e scriverà “NO MAFIA” sulla casina del promontorio nella quale si trovava il commando degli assassini che premettero il pulsante che azionava il detonatore. Quella vernice rossa fu una manifestazione spontanea di dolore e solidarietà al giudice ammazzato e ai tanti lavoratori dello Stato onesti che rischiavano la vita per combattere la mafia.
Quel guard rail dipinto di rosso e la scritta sulla casina furono per undici anni l’unico omaggio alla memoria dei morti di Capaci. Solo nel 2004 fu inaugurato il monumento, su progetto dell’architetto Costanza Pera, che li ricorda: sono due obelischi, uno per carreggiata, orientati in modo che i nomi delle vittime siano leggibili in entrambe le direzioni di marcia. Il guard rail oggi non è più rosso, ma molti vorrebbero che ritornasse di quel colore che quella mano anonima scelse per esprimere lo sdegno per quell’attentato.
Ai piedi delle due stele sorge il “Giardino della Memoria Quarto Savona Quindici”, un parco commemorativo realizzato da Anas e Regione Sicilia. “Quarto Savona Quindici” è il nome in codice della Fiat Croma marrone su cui persero la vita Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro, i primi ad essere investiti dallo scoppio. A tenere ancora viva la memoria di quegli uomini vi sono i resti dell’auto, che sono stati sistemati in una teca dall’associazione “Quarto Savona Quindici” fondata dalla signora Tina Montinaro, vedova di Antonio, che permette di trasportarla ovunque vi sia bisogno di ricordare il sacrificio delle vittime di mafia. Oggi è tornata a Capaci dopo 27 anni.
Anche la Croma bianca guidata da Falcone è contenuta in una teca, che si trova nella Piazza D’Armi della Scuola di Formazione della Polizia Penitenziaria di Roma in via di Brava 99. La vettura è stata ceduta nel 2002 al DAP dalla Corte d’Appello di Palermo. Il Dipartimento Amministrazione Penitenziaria l’ha conservata nel rispetto delle condizioni in cui l’esplosione di Capaci l’aveva ridotta e l’ha sottoposta a un restauro conservativo per permettere a tutti di visitarla e ricordare.
Come detto, il 19 luglio dello stesso anno morirà anche Paolo Borsellino. «Devo fare in fretta, adesso tocca a me», aveva confidato. E’ l’ “estate delle stragi” e ai funerali del secondo magistrato ucciso da Cosa Nostra nel giro di pochi mesi qualcuno espone un lenzuolo su cui c’è scritto: «Non li avete uccisi: le loro idee camminano sulle nostre gambe». E’ ancora oggi lo slogan di chi non dimentica quel giudice che tra i pochi svaghi che poteva permettersi c’era semplicemente il guidare un’automobile.