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All’inizio, cioè negli anni Ottanta, le infrazioni venivano rilevate da agenti mediante strumenti che memorizzavano le targhe per mezzo di macchine fotografiche e pellicole. Ovvero con impiego di personale, investimenti per l’acquisto delle apparecchiature - allora alquanto costose - e scarso rendimento in termini di entrate, perché ogni pellicola poteva contenere al massimo 136 fotogrammi.
Giunta alla fine del rullo, la pellicola doveva essere estratta dalla macchina e portata allo sviluppo. Poi gli agenti dovevano leggere le targhe, accertare l’infrazione, interrogare la Motorizzazione, ricavare i dati del proprietario e inviare il verbale di contestazione.
La “produttività” della pattuglia in servizio era quindi plafonata dalla lunghezza della pellicola. E quella del comando dei vigili, dal numero di autovelox che il bilancio comunale poteva permettersi e da quello del personale addetto alle pratiche.
Poi, negli anni Novanta, arrivò l’elettronica, o meglio le telecamere collegate a un processore. Si potevano usare per documentare il superamento dei limiti di velocità, il passaggio col rosso, quello sulle corsie riservate e anche l’ingresso nelle ZTL. Infine, recentemente, il parcheggio in seconda fila.
Insomma, uno strumento automatico, preciso, insindacabile, per documentare non una, ma tutte, le infrazioni in un tratto di strada. Nessun limite al numero di targhe da memorizzare, nessuna perdita di tempo per risalire al proprietario, e - miracolo del marketing - nessun impiegato necessario per la spedizione del verbale.
Sì, perché nel frattempo il gatto, ovvero l’amministrazione locale - che pativa un handicap nello scarso personale da destinare alla compilazione e spedizione dei verbali - era stata sollevata da tale compito dalla graziosa disponibilità delle decine di ditte pronte a fare da intermediario. Ben inteso, in cambio di un compenso su ciascun verbale. Insomma, un cottimo.
Ma c’era un grave problema: l’elevato costo dei dispositivi che i Comuni non potevano affrontare come investimento. Un impianto con una telecamera si aggirava sui 200.000 euro, al quale si doveva poi aggiungere il programma di lettura targhe, un abbonamento alla banca dati della Motorizzazione (o del PRA) ed eventualmente quello per la compilazione e spedizione dei verbali.
Quello per le ZTL sfiorava il mezzo milione, costo che avrebbe comportato una gara europea per l’appalto. Ma il problema venne superato con astuzia: le ditte offrivano gratuitamente le apparecchiature ai Comuni, con allettanti contratti-capestro che prevedevano un ritorno per ciascun fotogramma scattato. Secondo documenti in nostre mani, l’onere raggiungeva anche 17 euro a scatto.
Tenendo conto che un autovelox, piazzato in certe posizioni privilegiate, era in grado di collezionare 500 infrazioni al giorno, si scopre che nel giro di tre mesi gli introiti per la ditta vincitrice dell’appalto potevano toccare (17 x 500 x 90) la sontuosa cifra di 765.000 euro. Che ovviamente hanno trasformato centinaia di aziende, con qualche aggancio nelle amministrazioni locali, in fornitrici di telecamere e programmi. E Comuni con le casse in bolletta, in astuti installatori di bancomat.
Il Parlamento ha subito reagito vietando il noleggio degli apparecchi pagato con un aggio su ciascun verbale, anzi ha espressamente imposto che i dispositivi fossero acquistati dalle amministrazioni locali per evitare di solleticare un bieco appetito al diffondersi epidemico degli autovelox.
Poi, onde evitare che il costo di acquisto fosse nascosto sotto un compenso gonfiato per le pratiche accessorie (riconoscimento della targa, compilazione e spedizione dei verbali) ha cercato di porre regole anche sui contratti.
Da questo momento, siamo nei primi anni Duemila, la rincorsa fra decreti ministeriali (che cercavano di porre un limite agli abusi), associazioni dei Comuni (sensibili ai consistenti introiti che le infrazioni automatiche consentivano) e ditte installatrici (che suggerivano come rispettare formalmente le norme, e far fruttare al massimo le apparecchiature) è diventata una vera e propria saga nostrana.
Con risvolti disgustosi, se non avessero provocato drammi familiari. Per esempio, un Comune lombardo aveva installato 5 semafori T-Red, uno dietro l’altro, su una sola strada, e in 12 mesi aveva mietuto 72.000 vittime.
Poiché in quella strada transitavano circa 60.000 veicoli al giorno, vuol dire che tutti hanno ricevuto almeno un verbale e qualcuno di più. Fra questi ultimi, il custode del cimitero, che ne ha collezionato svariati. Ma non è riuscito a pagarli tutti, anche perché, a distanza di molti mesi, ogni verbale (anche quelli pagati) si trasforma nella persecuzione del 126 bis, ovvero nella norma che impone a posteriori di comunicare i dati di chi guidava.
Morale: fra interessi, more, articolo 126 bis, spese di notifica, iscrizione a ruolo, eccetera, il povero custode dopo alcuni anni si è visto arrivare dal Comune - che è anche suo datore di lavoro - verbali con cifre astronomiche. Che il suo stipendio non gli consentiva di onorare. Senza battere ciglio il Comune ha passato la pratica alla locale esattoria, che a sua volta, non ottenendo il saldo, ha chiesto e ottenuto dal Comune stesso di agire contro il custode e di sequestrargli il quinto dello stipendio. Leggermente urticante.
All’origine della saga c’è la fame di soldi degli enti locali dopo che l’Erario ha avocato a sé gli introiti dell’ICI, la tassa comunale sugli immobili. Le altre voci di bilancio sono tutte già destinate e limitate: la tassa sui rifiuti è per legge destinata a coprire le spese del servizio. Gli oneri di urbanizzazione sono limitati dalle nuove costruzioni e in ogni caso impiegati per le opere relative. Le rimesse statali, condizionate dall’equilibrio di bilancio, imposto per legge. Le altre sanzioni per infrazioni ai regolamenti comunali, come il divieto di affissione e altro, rendono poco e richiedono personale ad hoc. Quindi, l’unica voce libera, suscettibile di incrementi smisurati, era, ed è, la rincorsa alle infrazioni stradali.
Giustificata con qualche ipocrisia col richiamo a una maggior sicurezza stradale, troppo spesso dettata dal bisogno di far quadrare i bilanci. E, aggiungiamo, condizionata dall’invidia per quei Comuni limitrofi che - dopo aver installato le telecamere - vedevano aumentare di colpo, del 20-25%, i loro introiti.
A questo punto le cose viaggiano su tre binari paralleli: da una parte, l’esigenza dei Comuni di accrescere le entrate; dall’altra, la facilità dei comandanti nel disporre di attrezzature di controllo senza investire una lira e senza bisogno di personale aggiuntivo; e infine la strada in discesa verso affari d’oro per i venditori-noleggiatori di dispositivi digitali per l’accertamento delle infrazioni.
In un sol colpo, i comandi potevano soddisfare le previsioni di bilancio assegnate dal sindaco (che rappresentano un obbligo per il comandante della polizia locale), mentre la ditta che vinceva l’appalto poteva contare su uno smisurato terreno ove introdurre anche programmi informatici per la compilazione e spedizione dei verbali, un contratto di noleggio che includeva l’assistenza legale nei ricorsi davanti al giudice ed il recupero crediti. Nonché una serie di “consigli per gli acquisti” per sviluppare il business futuro. Tutto chiavi in mano, senza sborsare un soldo.
Come in ogni processo produttivo, sono stati subito inventati i metodi per aumentare la produttività. Abbiamo visto studi di università toscane cimentarsi nella “strategia di collocamento” degli autovelox, per la serie: “Ti suggerisco dove e come metterli (leggi: appostarli) in modo che un’auto su tre cada in trappola”.
Cui si sono aggiunte disinvolture del tipo: nascondiamo gli autovelox nei cassonetti della spazzatura, oppure dentro un’auto civetta, oppure ancora sistemiamoli subito dopo aver abbassato il limite di velocità. E ancora, in un lungo rettilineo col limite a 50 all’ora e con striscia bianca continua, piazziamoli nel breve tratto ove si può sorpassare.
Chi ha pagato tutto, è il topo, cioè l’automobilista. Intendiamoci, ha reagito come la legge gli permetteva. Se trovava un appiglio. A volte inventando scuse, spesso ricorrendo ad alchimie giuridiche pur di dichiarare illegale l’uso dello strumento, sempre intasando le cancellerie dei Giudici di Pace con valanghe di ricorsi.
Di fatto, tutti i soldi che sono entrati nelle casse comunali in questi anni sono usciti dalle tasche, non bucate, degli automobilisti.
Per calmierare il malcontento e ridurre gli abusi, a partire dal 2010, il legislatore ha reagito con contromisure (decreto Maroni): la postazione dell’autovelox deve essere ben visibile e segnalata; se è presente una vettura di servizio, questa deve avere il lampeggiante in funzione; se c’è un segnale che abbassa il limite di velocità, vale l’obbligo di lasciare almeno 1.000 metri fra il segnale e l’apparecchio.
Naturalmente, gli addetti ai lavori non sono stati a guardare. L’apparecchio ben segnalato e visibile riduce la produttività? Bene, facciamo in modo che il controllo della velocità continui anche dopo la telecamera, senza che l’automobilista lo scopra, per esempio con un Tutor su un tratto di 500 metri. Oppure, il Parlamento ha deciso che nelle aree urbane non si possono installare autovelox fissi? Bene, li posizioniamo alla periferia e modifichiamo i confini del territorio comunale in modo che l’apparecchio risulti su una strada provinciale. E già che ci siamo gli manteniamo il limite dei 50.
In seguito i Comuni hanno ottenuto di poter adottare autovelox fissi su arterie urbane a grande scorrimento. E ovviamente hanno insignito di tale titolo onorifico anche viali che non possedevano le caratteristiche stabilite dal codice, come per esempio strade con incroci o con stalli di parcheggio, che sono proibiti nelle vie di grande scorrimento.
Ci si potrà chiedere come è possibile, di fronte a previsioni di 8.000 multe l’anno, arrivare poi a oltre 50.000, con un solo apparecchio. La risposta sta nei vari accorgimenti che si possono adottare senza violare la legge: per i semafori, riducendo i tempi del giallo, posizionando le telecamere in mezzo agli incroci invece che all’inizio, facendoli funzionare anche dopo la mezzanotte.
Per i controlli di velocità, basta disseminare la strada di cartelli che segnalano la presenza della postazione, in modo che sia perfettamente… nascosta.
Per le ZTL basta disporre di vari accessi, ciascuno con orari diversi di apertura. E aggiungere la didascalia “Varco aperto” per dire che… non si deve entrare.
Abbiamo sotto mano decine e decine di disinvolture, in qualche caso sfociate in veri abusi di potere, finiti nelle cronache giudiziarie con la condanna delle amministrazioni o dei vigili che hanno ecceduto. Ma ci sono anche esempi al contrario.
Per esempio, un comandante di polizia locale di una città ligure, pressato dalla Giunta comunale affinché gli introiti da sanzioni crescessero di circa un milione di euro all’anno - il che avrebbe comportato almeno 30.000 multe in più da autovelox - ha optato per una soluzione originale: anziché dare incarico a ditte esterne di seminare la periferia di postazioni per scattare foto-ricordo, ha comperato una telecamera per il riconoscimento della targa e l’ha montata sulla vettura di servizio.
Collegata alle banche dati del ministero dei Trasporti, è in grado di appurare istantaneamente se la targa inquadrata appartiene a una vettura assicurata e revisionata. Entrambe le condizioni comportano - se non verificate - una sanzione elevata vicina ai 1.000 euro. Così il comando non spara nel mucchio, compila meno verbali e sanziona veicoli effettivamente pericolosi per gli altri utenti.
Troppo intelligente e di buon senso per essere imitata?