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Fin dall’antichità un discreto numero di pensatori, in genere pessimisti, hanno teorizzato la limitatezza delle conoscenze umane, escludendo la possibilità di individuare delle verità assolute. Questi sono i filosofi “relativisti” seri, se è serio chiudersi gli occhi davanti a certe leggi inconfutabili la cui validità, in certi ambiti, è indiscutibile.
Quando il relativismo (spicciolo) diventa menefreghismo
Il relativismo spicciolo, che sconfina nel “menefreghismo”, è invece largamente professato a livello individuale e associativo da tutti i soggetti che non si interessano delle conseguenze delle proprie azioni. Chi guida sotto l’effetto di alcoolici o di sostanze stupefacenti ha già deciso, prima di mettersi al volante, che il mondo obbedirà alle sue regole, che si comporterà “relativamente” al suo modo di essere e di agire.
L’amministrazione che non rimedia ai pericoli (siano essi buche, mancanza di barriere di protezione, ostacoli sporgenti, segnaletica fantasiosa, ecc.) perché ”tanto c’è il limite di 30 km/h di velocità massima” crede che tutti si comporteranno di conseguenza e magari se la caverà dal punto di vista giudiziario perché si era “relativamente protetta”. Un esercizio di “scaricabarile” volto a rovesciare su altri le proprie responsabilità fino ad approdare nel mare magnum della fatalità, del destino imponderabile. Il pullman che rompe i freni, urta contro le barriere appoggiate ma non fissate e cade nel burrone?
Fatalità, ma non certo responsabilità del gestore della strada perché: primo i freni non si debbono rompere (ci sono le revisioni obbligatorie) e secondo si deve restare in carreggiata e nei limiti di velocità stabiliti. Molta gente, diciamo pure responsabile almeno in parte, continua a dormire sonni “relativamente” tranquilli perché è convinta che il mondo dovrebbe comportarsi secondo il proprio personale concetto di sicurezza che ritiene “imprevisto” quello che invece doveva essere previsto (e quasi sempre è effettivamente previsto, e bellamente ignorato, dai regolamenti di esecuzione dei lavori).
Avrete certamente notato quei tizi che, in corrispondenza dei cantieri, con molta buona volontà, agitano delle palette verdi da un lato e rosse dall’altro e sveltiscono il traffico regolando il senso unico alternato. Benissimo, ma che autorizzazione hanno? Se uno non li vede cosa succede? Con che criterio agiscono? Che competenza hanno se a volte sono poco più che ragazzi? Se si esaminano le leggi, di sicuro non è prevista la facoltà di affidare a chiunque un compito del genere, come invece avviene regolarmente. A passare (con la paletta verde) ci si sente solo “relativamente” sicuri.
“Molta gente, continua a dormire sonni “relativamente” tranquilli perché è convinta che il mondo dovrebbe comportarsi secondo il proprio personale concetto di sicurezza che ritiene “imprevisto” quello che invece doveva essere previsto”
Quando il relativismo è una cosa seria invece...
Per tornare al relativismo serio, un non-relativista famoso, che non cadde nell’intolleranza (pericolo in cui possono cadere gli antirelativisti) fu lo scopritore e formulatore della “teoria della relatività”, l’ebreo Albert Einstein di cui è nota l’affermazione che “Dio non gioca a dadi”. Più precisamente e spiritosamente egli aggiunse che Dio gioca a carte “ma è difficile dargli una sbirciatina”. Esiste cioè una realtà assoluta di cui si può e si deve esplorare le regole; a non capirle o non assecondarle non si progredisce.
Se uno scienziato fosse relativista non avrebbe nulla da scoprire o quello che scoprirebbe varrebbe solo per lui: cioè nulla. Avere una fede religiosa non è conseguente: le regole fisiche e matematiche non comportano quelle morali. Ma né gli scienziati credenti (come i cristiani Isaac Newton, Blaise Pascal e lo stesso Galileo Galilei) né quelli atei (meno famosi e stabilizzati da un secolo attorno al 30% del totale) potrebbero orientarsi in un mondo senza punti di riferimento.
Carlo Sidoli