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Il nome è una delle tanti parti che caratterizza una vettura, spesso che ne sintetizza le qualità, e grazie ad esso sappiamo riconoscerle l'una dall'altra . Ma come nascono i nomi delle vetture che guidiamo ogni giorno?
La storia dell'automobile è piena di aneddoti che riguardano il "naming", il battesimo di un'auto, e non sempre va tutto per il giusto verso. Negli anni Sessanta Porsche dovette cambiare il nome alla 901 – che diventò 911 – per non dover pagare i danni a Peugeot.
Un altro esempio più recente è di Fiat: nel 2003 qualche genio aveva deciso che la nuova Panda seconda serie avrebbe dovuto chiamarsi Gingo per staccarsi dalla storia ventennale della utilitaria di Giorgetto Giugiaro. La cosa non piacque alla Renault perché il nome era troppo simile a quello della Twingo e i vertici della Fiat dovettero (per fortuna) di fare dietro-front a pochi giorni dal lancio.
Per rispondere alla domanda in apertura dell'articolo e scoprire tutto il background che solitamente non si conosce, il professor Vittorio Montieri, docente del corso di “Comunicazione Integrata” all’Università di Padova, ci ha gentilmente concesso un po’ del suo tempo per scoprire tutto quello che si cela dietro al “semplice” nome di un’auto.
Prima di parlare dell’argomento principale, ci vuole spiegare generalmente il mondo del poco conosciuto “naming marketing”?
Inventare un nome è la prima cosa che facciamo per dare un’identità a tutto ciò che ci circonda: quando si scopre una nuova terra o una nuova stella, quando nasce un bambino o prendiamo un cucciolo, quando si fonda un’associazione o si organizza un evento, la prima cosa che pensiamo è come chiamarli. Naturalmente questo succede anche nel mondo dei consumi, e il marketing si sforza di sfruttare suoni e significati per dire in una parola qualcosa del prodotto, per renderlo più attraente. Effettivamente è un’opportunità spesso sottovalutata, anche se va detto che la sua funzione è limitata alla fase di lancio. Col tempo ciò che il nome è in grado di evocare grazie alla sonorità o al suo senso svanisce e finisce presto col ricordare direttamente il prodotto: non mi viene in mente un panda se penso alla Panda (a parte il fatto che il nome deriva da una divinità che nessuno conosce). Per lo stesso motivo, se il nome non vuol dire niente, in poco tempo si guadagnerà le sue connotazioni sul campo, o su strada nel nostro caso: A5, Serie 3, 911 stanno all’auto come il N°5 sta ai profumi di Chanel.
Come per ogni prodotto, questo concetto si applica anche al mondo automotive, c’è un lavoro più o meno complesso rispetto ad altri oggetti di uso comune?
Essendo un bene durevole che spesso è accompagnato da una forte carica emozionale meriterebbe maggiore attenzione, anche se gaffes clamorose e involontariamente scurrili come “MR2” o “e-tron” per il mercato francese, o “Pajero” per quello di lingua spagnola lasciano intendere che non sia proprio così (Ndr: la Toyota MR2 e la sigla e-tron di Audi in francese suonano come un insulto).
Negli ultimi 10-15 anni sono nati gruppi automotive che raggruppano tanti marchi - Stellantis, Volkswagen o i giganti cinesi. Li chiamano “House of Brands” ma cosa s'intende? La gente li riconosce?
Il cliente guarda alla marca, spesso non conosce il gruppo di appartenenza, per cui il problema si pone molto relativamente. Certo, quando scopri che parti meccaniche della tua Lamborghini sono marchiate VW o Audi qualche dubbio ti viene. La difficoltà maggiore è però per le aziende, che spesso devono gestire un ampio portafoglio di marche evitando che si cannibalizzino tra di loro. Per fare un esempio, la presenza del Gruppo Volkswagen accanto a Skoda era inizialmente un segno di garanzia, ma adesso il brand ceco tende a essere concorrente diretto della casa madre tedesca.
Pubblicità e comunicazione: una volta era tutto focalizzato sulle prestazioni, oggi si cerca altro.
Il motivo per cui sempre meno brand parlano di prestazioni è perché sempre meno persone sono appassionate di motori o ci capiscono qualcosa: quasi nessuno è più in grado di mettere le mani sotto al cofano. Inoltre le nuove generazioni considerano sempre meno l’auto come una rappresentazione pubblica di se stessi, e i costi crescenti certo non aiutano. Per questa ragione i contenuti della comunicazione virano su nuove forme di possesso (noleggio a lungo termine, car sharing) o sul tema ambientale con i modelli elettrici e ibridi. Un altro cambiamento in pubblicità è la sempre maggiore presenza femminile al volante, anche nei segmenti alti, dove, fino a non molto tempo fa, le donne alla guida erano impensabili.
Non tutti sanno che le Case propongono lo stesso prodotto (o quasi) con nomi diversi. Il territorio influenza il nome di un'auto?
Quasi sempre alla base del fenomeno c’è il marketing, anche se in qualche caso succede per ragioni societarie – ad esempio Lancia e Chrysler che per un po’ si sono scambiate i modelli, o la Clio che in Giappone si chiama Lutecia, il nome latino di Parigi (perché i diritti su questo nome sono di Honda) – oppure linguistico-culturali – la Hyundai Kona che in Portogallo si chiama Kauai per evitare significati sconvenienti, o l’Alfa 164 che in Oriente diventò 168 perché il 4 porta sfortuna. Così, per una ragione o per l’altra, abbiamo la Opel che nel Regno Unito diventa Vauxhall e in Australia diventava Holden, mentre negli Stati Uniti i modelli Insigna e Mokka si traducono liberamente Buick Regal ed Encore. Così il nostro Maggiolino in Germania e negli USA era uno scarafaggio (Kafer, Beetle), mentre in Francia era una coccinella (Coccinelle). La nostra Fiat Uno in Brasile diventava Mille, la Ritmo era la Strada in UK e oggi la Tipo è la Dodge Neon in Messico e medio-oriente. E poi ancora abbiamo la Qashqai che in Nord America fa Rogue Sport, la Volkswagen Golf che sempre in Nord America è stata ciclicamente venduta come Rabbit e infine la Honda Jazz, che nel suo paese d’origine sarebbe Fit.
Qual è la sua campagna pubblicitaria preferita? O quale sarebbe quella ideale?
La campagna anni Sessanta del Maggiolino Volkswagen firmata da Bill Bernbach ha fatto la storia della pubblicità e infatti è stata votata come la migliore pubblicità del XX secolo, così come negli anni Ottanta hanno fatto epoca gli spettacolari spot Citroën dell’agenzia RSCG. Personalmente ho molto apprezzato lo spot per BMW Serie 3 Touring diretto da Spike Lee nei primi anni Duemila, in cui scompaiono le scritte in sovrimpressione e il testo della pubblicità si trasferisce spezzettato all’interno dei luoghi attraversati dall’auto: su un cartello stradale, nell’insegna di un palazzo, su una borsa della spesa. Come tecnica, ha fatto scuola. Dello stesso periodo ricordo la parodia “censurata” della campagna di lancio della BMW Serie 1 da parte dell’Alfa 147. O “The Sculptor”, lo spot – oggi politicamente scorretto -del giovane indiano che con l’aiuto di un elefante trasforma un vecchio rottame nella replica di una Peugeot 206. O ancora The Force, con il bambino vestito da Darth Vader che riesce magicamente a mettere in moto la Passat. Sempre
di Volkswagen sono poi alcune finezze da copywriter, come lo slogan “Motus symbol”, anziché status symbol, per la Golf 1990. Purtroppo negli ultimi tempi le case automobilistiche e le loro agenzie sembrano proprio aver smarrito l’estro. La maggior parte delle campagne sono internazionali, non locali, e per andar bene dappertutto non incantano da nessuna parte: stessi luoghi neutri, stesse persone di varie etnie, stesse voci fuori campo al posto di sceneggiature recitate. Però ho trovato simpatica e raffinata “The power of distraction” di Range Rover Evoque, in stile con l’auto. Anche se il nome mi lascia un po’ perplesso.
Ringraziamo il professor Vittorio Montieri per il suo tempo e, per l'occasione, lanciamo un sondaggio fra voi, lettori di Automoto.it: quali pubblicità vi è piaciuta di più o di meno?