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L’America ha deciso: smentendo sondaggi, opinionisti e sentire comune, Donald Trump è riuscito nell’impresa all’inizio proibitiva di battere la favorita Hillary Clinton.
Lasciamo ad altri, più competenti di noi, l’esame del voto nel dettaglio, con l’analisi dei flussi e delle tendenze.
Per quanto ci riguarda, è stato il risultato del Michigan, stato al confine con il Canada, a indicarci come concreta l’ipotesi dell’alternanza alla casa Bianca tra democratici e repubblicani: a Detroit e dintorni, che nelle ultime due elezioni avevano scelto Obama, ora sono stati i rep a prevalere.
Non sarà un caso, allora, che il voto della cintura operaia legata alla produzione di auto abbia deciso di fidarsi di Donald e delle sue promesse all’industria automotive USA che rappresenta la fonte di guadagno per almeno un paio di milioni di americani, tra addetti alla produzione, filiera dell’accessoristica, rivenditori e concessionari.
Anche ad essi si è rivolto in campagna elettorale il tycoon ora presidente: i suoi continui richiami alla necessità di riportare gli USA alla grandezza dei decenni passati è stata da molti intesa come crociata per ridare dignità e valore anche all’industria locale, da decenni depressa anche a causa di scelte politiche che hanno privilegiato gli accordi di libero scambio con nazioni emergenti piuttosto che tutelare gli interessi interni.
Qualcuno potrebbe obiettare, ed a giusta ragione, che parlare di protezionismo in un mondo globalizzato è anacronistico, fuori dal tempo: ma è purtroppo quanto rischia di accadere con l’elezione di Trump, che ha spesso fatto della lotta contro il sistema economico globalizzato (lui che è diventato ricco anche grazie ad esso) il suo cavallo di battaglia.
Ricordiamo il programma dei “cento giorni“, reso noto un paio di settimane prima del voto: in esso, Trump ha parlato di revisione degli accordi internazionali come il Nafta e le intese con la Cina.
Per le auto, come forma di tutela della manifattura interna, Trump vorrebbe tassare le auto importate dal Messico fino al 35%. Una decisione che porterebbe il panico nei cda di gruppi come BMW, Mercedes, Toyota e Volkswagen, ma che potrebbe anche ritorcersi contro Ford e GM, che oltreconfine hanno delocalizzato sfruttando il minor costo della manodopera.
Senza contare, poi, che impugnare gli accordi internazionali sarebbe un danno per l'export, il cui valore che per i costruttori Usa è diventato sempre più determinante, in crescita a due cifre percentuali rispetto a dieci anni fa ed ormai arrivato a superare i due milioni di veicoli all'anno.
Ma c’è dell’altro: obiettivo dichiarato di Trump è la cancellazione dell’EPA (Environmental Protection Agency), vale a dire proprio l’ente governativo che ha dato il via al Dieselgate Volkswagen, ma che per il suo lavoro gode di un budget ritenuto eccessivo. Con la sua rudezza espressiva, Trump ha detto di volersi liberare dell’EPA, lasciandone operative solo piccole unità locali.
Infine, restano ancora senza risposta le domande sul destino degli investimenti decisi da Obama in merito alle infrastrutture di ricarica per le vetture a propulsione elettrica ed alle tecnologie di guida senza pilota: il green, inteso come difesa dell’ambiente, è però piuttosto lontano dalle preferenze di Trump, e la sua dichiarata volontà di fare tabula rasa rispetto alle decisione del presidente uscente (vedi l’Obamacare, il piano di salute pubblica nel mirino che a Trump provoca l’orticaria) non c’è da stare allegri al riguardo.
Insomma, in queste prime ore che seguono le elezioni USA sono diversi i punti che aspettano di essere chiariti. Attendiamo le prime mosse di Trump, per emettere un giudizio. Se dovessimo affidarci alle reazioni di borse e mercati, tutti in pesante affanno, non c’è molto da essere ottimisti: speriamo in questo di essere smentiti.