Paesi arabi: è finita l’epoca d’oro?

Paesi arabi: è finita l’epoca d’oro?
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I produttori di petrolio incamminati sul viale del tramonto della loro vita dorata
22 febbraio 2021

Un’indagine dell’Economist a firma di Gregg Carlstrom corrispondente dal Medio Oriente, squarcia il velo sullo stato reale dell’economia dei Paesi della regione, nell'immaginario collettivo identificata con il nuovo Eden.

In realtà, le cose sono ben diverse da quanto possa apparire.

In termini squisitamente economici, i Paesi arabi vivono una situazione complicata: quando il prezzo del petrolio scende, si impegnano (a parole, almeno) per rendere meno dipendenti dall’oro nero le loro società, anche se questo significa che non possono permettersi riforme costose; quando poi la produzione di greggio cala rispetto alla domanda ed i prezzi iniziano il loro rimbalzo, la casse statali tornano a riempirsi e per incanto scompare ogni necessità di fare riforme.

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Eppure qualche intervento è necessario, visto che i tempi sono cambiati: lo scoppio della pandemia ha portato la quotazione del greggio Brent a 21 dollari barile nel 2020 e neppure i più ottimisti si spingono ad ipotizzare per il 2021 un livello oltre la soglia dei 50.

Troppo poco, davvero, per portare in positivo i bilanci degli stati la cui economia è dipendente dal petrolio.

Qualcuno ha iniziato a correre ai ripari: l’Arabia Saudita, il più grande produttore della regione, l’anno scorso ha triplicato l’aliquota dell’IVA, portando l’imposta sul valore aggiunto al 15%; i sauditi che speravano fosse un provvedimento temporaneo, ma non è così: diventerà definitivo.

Eppure, malgrado questo sacrificio, il deficit statale è destinato a crescere ancora, con un effetto domino piuttosto preoccupante: ci saranno problemi nei pagamenti per i lavori del settore pubblico, anche se il regno saudita prosegue con i suoi megaprogetti, ad iniziare da Neom, la città high-tech da 500 miliardi di dollari che sorgerà nel deserto nord-occidentale, cui si aggiunge il più grande resort in costruzione sul Mar Rosso.

Ma tutto questo comporterà sacrifici sociali, visto che verranno espulsi dal mercato del lavoro gli operai migranti, per far posto a mano d’opera locale, con basso livello di retribuzione.

Non che i vicini dei sauditi stiano meglio, anzi: molte ville extra-lusso e tanti condomini lussureggianti di Dubai sono destinati a restare vuoti e si calcola che gli Emirati Arabi Uniti perderanno circa un milione di migranti, un decimo della sua popolazione.

Alcuni torneranno a casa, avendo perso il lavoro; altri, avendo subito un taglio di stipendio, rimanderanno nei Paesi di origine indietro le loro famiglie e si adatteranno ad appartamenti più piccoli, per contenere i costi.

Questo causerà un ulteriore calo dei prezzi degli immobili, già diminuiti del 10% nel 2020 ed a ben poco servirà a Dubai ospitare l’Expo mondiale ad ottobre 2021.

Mal comune mezzo gaudio? Forse: il Kuwait è costretto ad attinge ai mercati obbligazionari per colmare un deficit di bilancio che potrebbe arrivare al 15% del PIL, gravando le generazioni future con più debito per pagare un settore pubblico fuori misura; una condizione per noi italiani ormai considerata normale, ma che all’ombra dei palmeti viene vista con orrore.

Ancora: Bahrain ed Oman, già considerati quasi “stati-spazzatura” rispetto i loro vicini, avranno ancor più difficoltà ad ottenere prestiti, ma se si allunga il collo appena fuori dal Golfo il quadro appare ancora più cupo.

L'Iraq, per esempio, sarà costretto a tagliare le spese per coprire la voragine pubblica e le riserve estere dell'Algeria, che hanno toccato la rassicurante vetta dei 200 miliardi di dollari nel 2014, sono orami scivolate sotto i 40 miliardi.

Per il futuro, non c’è da stare allegri: la domanda globale di petrolio appare destinata a restare depressa, mentre i membri dell'OPEC che hanno scelto rigorosi limiti di produzione nel 2020, dovranno scendere a nuovi compromessi per aumentare le quote di mercato; su tutto, poi, potrebbe impattare il nuovo corso della politica estera americana, con Biden che appare intenzionato a marcare una profonda discontinuità rispetto a Trump, anche nei rapporti con nazioni complicate come l’Iran.

Insomma, per i re arabi ed i loro ministri economici è davvero venuto il momento di ristrutturare in modo profondo il loro approccio alla finanza ed alla gestione della cosa pubblica.

Il punto è che per qualcuno potrebbe anche essere troppo tardi…

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