OiLibya Rally Marocco. Le avventure di Miki Biasion

OiLibya Rally Marocco. Le avventure di Miki Biasion
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Ancora un incontro con la straordinaria esperienza Miki Biasion, in corsa al OiLibya Rally del Marocco con la VM-Tecnosport. Perché non approfittare della saggezza del più grande e farci raccontare? | <i>P. Batini, Marocco</i>
4 ottobre 2014

ErfoudMassimo “Miki” Biasion, 56 anni di Bassano del Grappa, leggendario, insieme all’inseparabile Tiziano Siviero, Campione del Mondo WRC negli anni 1988 e 1989 con la Lancia Delta Integrale, dieci Dakar con Mitsubishi, Panda e IVECO, pluri vincitore di categoria e dei Rally di Tunisia, Faraoni, Abu Dhabi, e due volte Campione del Mondo Rally-Raid (tutto d’un fiato la gigantesca e luminosa costellazione sportiva della Leggenda italiana dei Rally) torna al OiLibya del Marocco, che ha già vinto nel 2009 e 2011, per correre con la VM-Tecnosport, frutto senz’altro acerbo, ma assai promettente e inetressante, di un accordo tra il costruttore di Motori e l’esperto Team di Como. Navigatore di Miki sarà Rudy Briani, abile ed esperto, conosciutissimo specialista del 4x4 italiano. Lo incontriamo al rally del Marocco per la seconda volta, dove rilascia una nuova intervista dopo quella dei giorni scorsi ai nostri microfoni.

 

Cos’è per te il Rally-Raid?
«Il Rally-Raid è una corsa speciale, nella quale non basta essere super veloci, altrimenti i Rallisti potrebbero vincerla subito e sempre, e magari i giovani che vanno al 110%. È un tipo di gara dove ti devi impegnare molto anche tatticamente, che devi affrontare talvolta come a Le Mans o al WRC, ma in altri casi, su altri tipi di terreno o in situazioni diverse, usando di più l’astuzia, la furbizia. Magari farti superare per evitare di danneggiare la macchina a metà tappa, per poi tornare all’attacco a fine tappa. Il Rally-Raid è una combinazione particolarissima di velocità, di tattica, di preparazione e di resistenza fisica e atletica. Tutto questo mi affascina».

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Al Rally del Marocco Miki Biasion si è presentato con la VM-Tecnosport

 

Già nel WRC hai conosciuto ambientazioni e luoghi affascinanti, ormai mitici. C’è anche questa componente, secondo te, nei Rally-Raid?
«Allora, se parliamo di Africa, di Dakar in Africa, io credo che abbia avuto un grande fascino, anche sotto il profilo di un particolare romanticismo che l’ha sempre caratterizzata, nel quale l’avventura era legata alla natura in modo molto forte. Ma la Dakar in Africa, alla fine, passava quasi sempre negli stessi luoghi, e quindi non dico che fosse diventata monotona, questo mai, ma indubbiamente ti dava la sensazione di essere un po’ la stessa cosa un anno dopo l’altro. In Sud America, ogni anno è diversa, dalle spiagge oceaniche alle Ande, dalle pianure desertiche alla vette innevate a cinquemila metri d’altitudine. Anche sotto l’aspetto della guida e del comportamento dei mezzi, le chiavi che si alternano sono tantissime, e rendono il Rally molto diverso. Ecco, io direi che la Dakar in America del Sud mi piace di più».

 

Parliamo di macchine, ma ricordiamo un momento i camion. Dici che ti piacerebbe ancora correre con gli elefanti del deserto. Cos’è che rende speciale correre con il camion?
«Beh, quando ho iniziato, e abbiamo anche vinto, parecchio, molto per la regolarità nonostante avessimo un mezzo non espressamente preparato per la competizione, anche il livello generale non era troppo alto. Oggi la categoria è affascinante anche perché ci sono molte squadre ufficiali, che fanno grossi investimenti e che hanno alzato moltissimo la performance generale di questi mezzi. Inoltre fa un grande effetto vedere una “bestia” di 90-100 quintali che fa un salto di trenta metri. Quando è una macchina o una moto, ormai sembra normale, ma non ci si abitua mai alle imprese dei camion. Anche il pubblico è affascinato, rimane colpito quando i camion corrono forte come le macchine. In tante Speciali, ormai, è sempre più frequente vedere un camion veloce come una macchina o una moto, ed è una grande sensazione guidare un mezzo del genere adattato perfettamente alla competizione, una sensazione da brivido quando pensi che, per la sua massa, deve essere guidato con una tecnica e una attenzione particolari. Sai che per sterzare in quel dato punto devi iniziare la manovra molto tempo prima e, ritardando molto le reazioni, il camion ti obbliga a capire e decidere molto prima. Una moto e una macchina frenano e schivano, il camion in certe situazioni no, va dritto».

Una moto e una macchina frenano e schivano, il camion in certe situazioni no, va dritto

 

Cosa c’è ancora di quel ragazzino che col Ciao su una ruota sola si incollava al finestrone posteriore degli autobus per stupire i passeggeri?
«La mia passione, la passione per i motori e per la competizione. Ancor oggi non posso giocare una partita a carte se non ci sono 5 euro o una birra in gioco. De Coubertin non è mai stato il mio mito. Competizione e motori, agonismo, quando ce l’hai dentro… Logico che devi essere cosciente che riflessi e preparazione fisica non possono essere più quelli dei vent’anni. Uscito dalla speciale dovrei andare a fare footing, ma alla mia età devo andare a fare la doccia e farmi massaggiare la schiena».

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A 56 anni, Biasion non ha perso la voglia di correre

 

Il rapporto con il navigatore. I tuoi successi non prescindono dall’altra persona che condivide con te l’abitacolo. Che genere di rapporto è? Professionale, di amicizia?
«A certi livelli, come quelli del Mondiale che ho fatto per quattordici anni, o della Dakar, il rapporto è prima di tutto estremamente professionale. Fortunatamente, con Tiziano Siviero, abbiamo passato vent’anni insieme, e quindi abbiamo fatto anche le Dakar assieme. Eravamo un binomio, ed è chiaro che c’entra anche una forte amicizia. Ognuno di noi conosceva i pregi e i difetti dell’altro, e ci adattavamo reciprocamente. Ho fatto anche delle gare con altri navigatori ed ho ottenuto ugualmente dei buoni risultati, e Tiziano anche, quando ha corso con altri piloti. Rally e Dakar, il compito dei navigatori è diverso. Nel Rally il navigatore è anche uno stimolo per il pilota, a guidare meglio, a prendere e mantenere il ritmo giusto. Nel Rally-Raid il navigatore è molto più importante. Perché anche se sei il pilota più veloce del mondo, e guadagni cinque minuti sugli avversari in una speciale, se il navigatore sbaglia un cap o non trova un passaggio, butti via tutti con gli interessi. Nel Rally raid il navigatore ha una responsabilità molto più grande. Non dico che si accolla il merito del successo, ma il suo apporto è senz’altro determinante».

Ma se c’è della polvere, esci per vedere un attimo dove puoi andare, e trovi subito il muro, il mucchio di sabbia fatale, allora vuol dire che era destino, un destino sfortunato

 

E quelle Dakar con la Mitsubishi?
«Ne ho fatte due con Mitsubishi, sì. La prima, con la derivata dalla serie, è andata abbastanza bene, eravamo stati molto regolari, avevamo vinto anche delle speciali. Nell’ultima tappa, arrivavamo a Sharm El Sheik, abbiamo avuto un problema. Siamo riusciti a concludere al secondo posto, ma poi il cambio si è bloccato per una perdita d’olio e, dieci ore dopo aver avuto il consenso dei commissari a salire sul podio, ci hanno penalizzato di dieci ore e retrocessi di conseguenza. Essere arrivati allo champagne e… dover rimettere il tappo, è stata una delusione, una frustrante sensazione di aver subito una penalizzazione ingiusta, politica. Personalmente mi ritengo secondo alla Dakar del 2003. L’anno dopo. Fortuna o sfortuna. Eravamo indietro, avevamo commesso degli errori e per recuperare, sono uscito dalla nuvola di polvere e dalla pista per superare un “trenino” di macchine, proprio in corrispondenza di un mucchio di sabbia. Un trampolino e la nostra Dakar è finita lì. Se partiamo dal concetto che la sfortuna non esiste, allora è stato un mio errore. Ma se c’è della polvere, esci per vedere un attimo dove puoi andare, e trovi subito il muro, il mucchio di sabbia fatale, allora vuol dire che era destino, un destino sfortunato. Che vuoi, c’è un fatto: fa parte del gioco».

 

Fino a che età pensi di correre, ci hai pensato mai?
«Mi piacerebbe ancora fare un paio di Dakar. Ma perché mi piace esserci, mi piace l’ambiente. Poi mi piacerebbe esserci ancora con qualche altro compito,. Magari parte un progetto nuovo, e vedo che posso essere utile… non più competitivo da pilota, ma ancora utile per il supporto che potrei dare a dei piloti giovani, da seguire e aiutare a crescere. Penso che sarebbe una bellissima cosa».

 

Immagini ApPhotosport
 

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