Lambrate, Italia, 1968

Lambrate, Italia, 1968
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Nel 1968, il nostro editorialista lavorava da 5 anni alla Innocenti di Milano. In queste note racconta la sua esperienza di giovane ingegnere nell’industria dell’auto e della moto, i suoi viaggi intorno al mondo per vendere Lambrette e Guzzi V7, l’epopea delle Mini Cooper nei rally. Poi i riflessi delle contestazioni giovanili e sindacali sul mondo dell’industria. E, infine, la decisione di passare al giornalismo nel 1972
4 agosto 2018

Mi ero laureato sei anni prima a Genova con una tesi sperimentale, singolare ma anche pericolosa: aumentare la potenza del motore di una Fiat 500 senza toccare nulla di meccanico, ma semplicemente alimentandolo – o meglio, sovralimentandolo – con aria arricchita di ossigeno. Singolare, perché con una semplice bombola da sub si poteva truccare un motore. Pericolosa, perché l’ossigeno è un fulmine che divora tutto, anche le valvole. Due gli step che i professori avevano richiesto per ottenere la laurea:

  • lasciare inalterata la quantità di benzina, per sfruttare appieno tutta quella che viene comunque inviata nella camera (anche per raffreddare le valvole). E misurare l’aumento “gratuito” di potenza che si ottiene;

  • aumentare del 25% l’erogazione di benzina (allargando i getti del carburatore), per vedere l’effetto che fa.

Risultato: col primo step aumento di potenza del 18 – 20%, ma rischio garantito di bruciare le valvole dopo qualche ora di funzionamento. L’ossigeno accresceva la velocità di combustione tanto da dover ridurre alla metà l’anticipo di accensione. Molto meglio il secondo step: aumento di potenza del 45%, che era il traguardo fissato dai professori per la laurea.

LAPD, 1970: Enrico De Vita mostra le modifiche alla V7 ai responsabili della polizia californiana
LAPD, 1970: Enrico De Vita mostra le modifiche alla V7 ai responsabili della polizia californiana
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Volevo andare alla Ferrari, i motori erano il mio pallino, ma un anno prima della laurea andai a Monza per partecipare a una gara di accelerazione organizzata dalla Innocenti, con la seconda serie della A40 S. Alla premiazione chiesi al dirigente della Casa di Lambrate se la Innocenti cercava ingegneri meccanici. “Mandami la domanda appena sarai laureato”, mi rispose.

Così, il 1° settembre 1963 ero a Lambrate, ingegnere addetto alle licenziatarie estere della Lambretta. Stipendio 105.000 lire al mese. Possedevo una Lambretta 125 Li dal 1959, comperata con i soldi guadagnati suonando la chitarra nelle orchestrine. Ne conoscevo ogni dettaglio per averla smontata e rimontata più volte, dopo infinite tirate a tutto gas con amici, fans della Vespa.

Passavo giorni interi a imparare a memoria le schede di lavorazione di ogni pezzo, trattamenti termici compresi. Due anni prima, per uno stage universitario, ero stato in Norvegia per sei mesi, nel reparto manutenzione di una cartiera. Facevo il saldatore, ho imparato il norvegese, stipendio in lire: 110.000.

Il salotto di Lambrate

Nel 1963 la Innocenti presentò la IM3, un vero salotto. Pininfarina ne aveva disegnato la linea e curato cruscotto e interni, davvero molto eleganti per quei tempi, quando la plancia non era ancora imbottita ma semplice lamiera verniciata. Nel 1965 mi ero già comprato cinque IM3, rivendute dopo pochi mesi ad amici e conoscenti perché, allora, la domanda e i tempi d’attesa erano biblici e, a volte, ci guadagnavo pure. Costavano 1.345.000 lire, prezzo unico, tutto compreso. Non c’erano optional. L’Innocenti ti chiedeva un piccolo anticipo e il resto lo pagavi quando vendevi la macchina. Era una pacchia.

Tenuta di strada ineguagliabile, grazie alle sospensioni idro-elastiche, a vasi comunicanti sullo stesso lato, trazione anteriore, freni a disco, potenza 60 CV. E, soprattutto, velocita massima di 150 km all’ora, davvero elevata per una 1100 dai bassi consumi.

E cominciai continui viaggi in Inghilterra, a Croydon, dove aveva sede la Lambretta England, un’azienda che montava e vendeva migliaia di scooter all’anno, provenienti da Lambrate. Apparteneva a Peter Agg, un lord inglese titolare della MacLaren-Elva, una fabbrica di auto sportive, e del museo Montagu. Si respirava ovunque l’odore di olio di ricino bruciato, sensazione unica, quasi inebriante, che chi ha frequentato le piste e i campi di gara nel secolo scorso sa bene cosa significa.

In Cina, a vendere Lambrette

Nel 1965, a 27 anni, la Innocenti mi inviò nella Cina nazionalista, isola di Taiwan, capitale Taipei, ove funzionava una produzione su licenza. Ci volevano 4 giorni di viaggio per raggiungerla da Milano: Roma, Gedda, Calcutta, Kuala Lumpur, Bangkok, Hong Kong; spesso volando sui Comet, aereo la cui fama di perdere le ali non faceva dormire tranquilli.

A Taipei dovevo risolvere qualche problema tecnico nella linea di montaggio del telaio. Il motore arrivava intero da Milano, ma avevo anche l’incarico di presentare – sulla carta - un nuovo modello di scooter leggero al presidente della società, che era il fratello del generalissimo Chiang Kai-shek, l’uomo che aveva perso contro Mao Tse Tung e si era rifugiato con tutto l’esercito e le famiglie dei militari su questa isola.

La fabbrica si chiamava Yue Long e produceva un modello di auto, la “Bluebird”, su licenza Datsun (precedente nome della Nissan). A quei tempi, l’industria automobilistica giapponese muoveva i primi passi alla conquista dei mercati mondiali, ma in tutto l’Estremo Oriente, dalla Cina, all’India, dal Giappone all’Indonesia, era ancora l’auto “made in England” a dettare legge, considerata la numero uno per tecnica motoristica e telaistica. Nessuno avrebbe mai immaginato che 35 anni dopo tutti i marchi britannici, anche i più blasonati, sarebbero finiti in Cina, in Indonesia, in India, in Malesia…

Riuscii a vendere 10.000 Lambrette ai cinesi, piccola iniezione di ossigeno in un momento critico per la Lambretta. Così, al ritorno, mi offrirono di passare alla divisione auto e mi promossero in prima categoria: un riconoscimento che mi metteva accanto ai 100 capireparto che contavano nell’azienda, personaggi col pallino della meccanica, quasi tutti raffinati operai brianzoli, scelti personalmente da Fernando Innocenti per gestire i reparti dell’azienda, che allora contava più di 7000 dipendenti.

Dai rottami, ai siluri, alle auto

Ferdinando Innocenti, il fondatore dell’azienda di Lambrate, era un toscano che, partito dalla raccolta di materiali ferrosi, si era ben presto dedicato all’industria pesante, reinvestendo sempre tutto all’interno dell’azienda, ove produceva laminatoi, torni a giostra, presse, frese verticali nella sezione meccanica pesante. Prima della Seconda Guerra mondiale aveva ottenuto successo con la produzione dei tubi per ponteggi, poi ceduta alla Dalmine. Durante la guerra aveva prodotto siluri in quello stesso stabilimento che, a partire dal 1947, avrebbe ospitato le linee di assemblaggio della Lambretta.

Epica l’avventura dell’azienda negli anni che vanno dal 1956 al 1959: competere con i colossi europei dell’industria metallurgica alla costruzione di un impianto siderurgico nel centro dell’Amazzonia, sul fiume Orinoco, in Venezuela. E risultare vincente.

Si trattava di costruire tutto da zero, nel cuore della foresta, compreso il porto e la centrale idroelettrica, per lavorare il minerale di ferro del vicino Cierro Grande, una vera montagna di pirite, da fondere nei forni Martin, da lavorare a caldo nel laminatoio e poi spedirlo - via fiume - sotto forma di nastro d’acciaio o di tondini. Quasi un migliaio di dipendenti venne trasferito in Venezuela per portare a termine l’opera gigantesca. E, con i soldi di quell’impresa, l’Innocenti entrò nel mondo dell’automobile.

Conobbi Ferdinando Innocenti alla cena di Natale del 1965, al ritorno del viaggio in Cina. Ero l’ultimo entrato nel gruppo di prima categoria e, come d’uso nell’azienda, venni incaricato di porgergli il saluto. Si respirava l’orgoglio di appartenere a quell’azienda.

La Mini va a ruba

Ferdinando Innocenti morì nel 1966, proprio nel momento in cui la divisione auto era salita al secondo posto per le vendite superando l’Autobianchi, la Lancia e la stessa Alfa Romeo. A decretare il sorpasso fu la nuova linea per la produzione della Mini e della Mini Cooper, le cui vendite andavano letteralmente a ruba, grazie alla eccezionale tenuta di strada, alla facilità di guida, alle continue vittorie nei rally di Montecarlo e di Svezia. E questo nonostante vistosi punti deboli della meccanica: l’usura dei giunti omocinetici, la fragilità dei perni sferici e la complicata regolazione dei pur semplici carburatori SU.

Mi venne affidato l’ufficio tecnico assistenza: il compito era quello di scoprire i difetti delle vetture e di porvi rimedio. Potevo contare su una squadra di giovani ingegneri e su una decina di collaudatori, in grado di intervenire rapidamente in tutta Italia.

Nel 1967, demmo vita a quella che probabilmente è la prima azione di richiamo effettuata in Italia. Su alcune Mini si era bloccato lo sterzo durante un parcheggio contro il marciapiede, a ruote totalmente sterzate. In quella posizione, infatti, i denti della cremagliera forzavano sulla parte più alta o più bassa del pignone che era anche quella resa più fragile dal trattamento termico. Un pezzo di dente cadeva fra gli ingranaggi, bloccando lo sterzo. Nessun pericolo per le persone, ma l’azienda di Lambrate decise di intervenire una ad una, su tutte le Mini circolanti, sostituendo la scatola sterzo.

L’anno successivo fu quello dei rally. La squadra corse della BMC, con le Cooper S stravinceva nelle corse europee, in pista e nei rally, anche se, non di rado, veniva squalificata a fine gara, per qualche motivo tecnico. Come al “Montecarlo” del 1966, quando trovarono il modo di dichiarare fuori legge l’impianto di illuminazione, ma in realtà erano fuori legge i carburatori Dell’orto, montati regolarmente sulle Cooper italiane. Oppure quando al Rally di Sanremo del 1967 si ruppe un giunto cardanico della vettura di Hopkirk proprio al culmine della salita del Poggio, ultimo strappo prima di scendere a Sanremo. La Vanden Plas dei meccanici, che lo seguiva, lo spinse su fino in cima, appoggiandosi al paraurti posteriore, poi a rotta di collo in discesa. Infine l’ultimo mega-tamponamento con rincorsa, nel tunnel di Sanremo. E giunse di slancio al traguardo. Ma col motore spento. E bastò questo per squalificarlo. Vinse Piot, su Renault Gordini, un certo Todt gli faceva da navigatore.

Enrico De Vita al Los Angeles Police Department nel 1970. A sinistra in prova con la concorrenza, Harley Davidson; a destra assieme ai capi e ai comandanti della polizia di Los Angeles
Enrico De Vita al Los Angeles Police Department nel 1970. A sinistra in prova con la concorrenza, Harley Davidson; a destra assieme ai capi e ai comandanti della polizia di Los Angeles

Il libro sui rally

Quando quelli della BMC venivano a gareggiare in Italia, come nel Rally di Sanremo o al Mugello, chiedevano il nostro supporto, anche perché apprezzavano molto la rapidità dei collaudatori Innocenti per gli interventi durante la gara. Da questa esperienza e dalla passione dei giovani ingegneri ebbe origine una piccola squadra corse con le Cooper Innocenti, che gareggiò per diversi anni nel campionato nazionale rally. L’azienda non partecipava direttamente, ma guardava con benevolenza l’iniziativa. E ne sortì anche un libro pubblicato dalla De Agostini, “Il Rally, tecnica, auto, gare”, che spiegava per la prima volta, con disegni a colori, i segreti della tenuta di strada, il controsterzo, la guida delle trazioni anteriori. Venne tradotto in sei lingue e ristampato due volte

E arrivò il 1968 con le vertenze sindacali, con la contestazione studentesca, con l’impreparazione della classe dirigenziale nell’industria nazionale. Alla Pirelli frange di operai bruciavano pile di pneumatici nuovi per contestare la guerra che gli Stati Uniti combattevano in Vietnam.

Alla Innocenti si susseguivano gli scioperi per contestare la gestione aziendale degli eredi di Ferdinando Innocenti. I miei colleghi di università, che operavano in altre aziende del nord, avevano riposto i loro progetti nei cassetti in attesa di tempi migliori. L’industria sembrava avesse una pausa di riflessione.

Le vendite della Lambretta andavano male. L’azienda stava trattando la vendita dell’intera linea a una società indiana. Il ciclomotore a ruota alta non aveva fatto breccia sul mercato e neppure il Lui, uno scooter elegante e avveniristico disegnato da Giugiaro (allora giovane designer della Bertone) riuscì a sfondare.

L’auto, grazie ai successi della Mini Cooper nel campo sportivo, andava meglio, ma il coraggio del fondatore si affievoliva ogni giorno di più nei suoi eredi e nella dirigenza, alimentata in qualche modo dalla contestazione studentesca e sindacale di quei mesi.

Il Van8, un veicolo elettrico alla cui progettazione ha partecipato Enrico De Vita. Presentato a Philadelphia nel 1978, era dotato di un pacco batterie al piombo da 400 Kg e struttura a pannelli piatti per facilitarne l’assemblaggio in varie nazioni
Il Van8, un veicolo elettrico alla cui progettazione ha partecipato Enrico De Vita. Presentato a Philadelphia nel 1978, era dotato di un pacco batterie al piombo da 400 Kg e struttura a pannelli piatti per facilitarne l’assemblaggio in varie nazioni

La Ferrarina

La fotografia della paura apparve nitida quando la direzione decise di abbandonare il progetto della Ferrarina, una berlinetta da un litro di cilindrata, con motore a 6 cilindri, progettata dalla Ferrari. Ne vennero costruiti due esemplari che girarono a lungo alla ricerca di affidabilità.

Nel frattempo, ero stato incaricato di seguire l’assistenza tecnica per l’Italia delle marche inglesi che erano entrate nel gruppo BMC: Jaguar, Rover, Land Rover, Leyland, Triumph e Vanden Plas (una piccola Rolls Royce). E poiché erano vetture esportate anche negli Usa, erano dotate di dispositivi antinquinamento sconosciuti in Europa, che facevano la prima apparizione nel mondo dell’auto. Quello che mi suscitò qualche perplessità sulla filosofia dei regolamenti adottati era una pompa elettrica per soffiare aria nel tubo di scarico: poiché le norme imponevano una percentuale massima di CO (ossido di carbonio, l’unico veleno mortale emesso dalle auto) all’uscita del tubo, la soluzione scelta era una… diluizione preventiva.

Nel 1969 accolsi l’invito della Moto Guzzi per gestire il progetto, la produzione e la vendita della serie speciale di V7 per la polizia americana. Ero tornato ai vecchi amori, la moto, e alla voglia di competere con l’eccezionale prodotto giapponese, che la concorrenza imponeva ai pochi sopravvissuti della storica industria motociclistica italiana.

La Mini Cooper di Enrico De Vita nel rally di Villa d’Este del 1968
La Mini Cooper di Enrico De Vita nel rally di Villa d’Este del 1968

Motocicletta, 10 HP

Vendemmo circa 7000 V7 ai vari dipartimenti di polizia statunitensi, da New York a Los Angeles, da Glendale ad Albuquerque, in accesa e facile competizione con le Harley Davidson, pesanti, lente e spesso soggette al wobbling, una sorta di violenta e pericolosa oscillazione del manubrio, dovuta ai vortici provocati dal grande parabrezza e alla frequenza di risonanza del telaio. Ne vendemmo anche una cinquantina per la scorta del maresciallo Tito, presidente di quella che allora si chiamava Jugoslavia. Nel 1971, andai di persona a Belgrado, per consegnarle con una cerimonia al colonnello Branko Broz, nipote di Tito e capo dell’ufficio acquisti dell’esercito. Ma non fui capace di metterne in moto neppure una: ero stato tradito da una V7 alcuni mesi prima, a Glendale, in California, mentre la collaudavo per eliminare proprio il difetto del wobbling. Scaraventato in aria, a 145 km/h, in autostrada, ustioni dappertutto, vivo per miracolo grazie al casco che mostrava i segni di aver rimbalzato più volte sull’asfalto. E ne conservava cinque vistose limature. Molte settimane di ospedale, un rientro in Italia doloroso. Battisti cantava “Motocicletta, 10 HP”, ma per me la moto era un capitolo chiuso. A parte la convinzione, da tradurre in opere, che il casco salva la vita.

Ero stato tradito da una V7 alcuni mesi prima, a Glendale, in California, mentre la collaudavo per eliminare proprio il difetto del wobbling. Scaraventato in aria, a 145 km/h, in autostrada, ustioni dappertutto, vivo per miracolo grazie al casco che mostrava i segni di aver rimbalzato più volte sull’asfalto

Giornalista praticante

Alla Innocenti mi era stato assegnato, nel 1967, l’ufficio che redigeva i manuali e le circolari tecniche. Compilai il “manuale della garanzia”, non so perché mi venne anche affidato il compito di redigere una storia dell’Innocenti e, successivamente, divenni l’autore della Mini Posta, una rubrica che usciva tutti i mesi su Quattroruote e che rispondeva ai quesiti degli appassionati.

Inconsapevolmente ero entrato nel mondo del giornalismo, mondo nel quale mi sembrava di trovare risposte e argomenti che gli anni della contestazione avevano sollevato, ma non risolto. Gianni Mazzocchi, già nel 1969 mi aveva incaricato di preparare un dizionario tecnico dell’automobile, in due volumi. E ne avevo completato il primo. Quando lasciai la Moto Guzzi, nel 1971, il dizionario venne trasformato in una enciclopedia in dieci volumi. Battezzata “Milleruote”. La Domus mi offrì di diventarne caporedattore. Lasciai l’industria e alla fine del 1971 divenni “giornalista praticante”, per diventare “professionista” l’anno dopo. Un ingegnere prestato al giornalismo, con una passione che dura tuttora.

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