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Esiste una tratta - quasi del tutto rettilinea - che parte dal cuore di Milano e che arriva fino ai suoi confini, e che più di ogni altra è in grado di testimoniare quanto andiamo dicendo. È l’“asta” - come le chiamano gli urbanisti - che parte da San Babila (la piazza situata al termine di Corso Vittorio Emanuele II, a pochi passi dal Duomo) e raggiunge la stazione di Cascina Gobba. Un percorso lungo il quale ad emergere sono, innanzitutto, le grandi differenze, da un punto di vista sociale: dagli esclusivissimi palazzi della ricca e tradizionale borghesia milanese di Corso Venezia, al meltin pot di Via Padova, passando per una delle più importanti arterie del commercio milanese come Corso Buenos Aires. Ma a rendersi del tutto evidente è anche una gestione degli spazi, del traffico e delle infrastrutture legate alla mobilità, oramai incapace di fare fronte alle esigenze della popolazione. Sette chilometri che hanno, oggi, tempi di percorrenza prossimi alla mezz’ora, con una velocità media di attraversamento che non supera mai i 15 Km/h. Una tratta in cui i flussi di traffico sono ridotti de facto dalla presenza costante di auto in doppia fila. Quelle stesse auto che impediscono di sfruttare al meglio una superficie che ben potrebbe essere recuperata ad uso e consumo della cittadinanza con l’impiego delle più moderne tecniche di arredo urbano.
Dai palazzi di Corso Venezia, al meltin pot di Via Padova: un percorso in cui ad emergere sono anche le grandi differenze sociali
Un futuro possibile a cui ha dedicato la propria immaginazione Metrogramma lo studio di architettura, urbanistica e interior design con uffici e filiali sparse tra Milano, Mosca, New York, Londra e Dubai, guidato dall’Architetto Andrea Boschetti. Una realtà di primo piano che ha firmato tra gli altri gli scenari di densificazione urbana per la crescita della città di Bolzano - Habitat BZ 2001" (Medaglia d'oro per l'Architettura Italiana), il Piano di governo del Territorio di Milano per la trasformazione della città lombarda nel 2030, il progetto per il nuovo grattacielo della Regione Lombardia (2003), il centro commerciale Scalo Milano City Style, e che ha presentato, nel corso del 2019, il progetto Milano Future City, frutto di una interessante collaborazione con Volvo, e con il quale è stata illustrata una nuova visione proprio del percorso che va da San Babila alla fine Via Padova.
«In realtà non ci siamo occupati solo di quell’asta» ci spiega, Andrea Boschetti, nella sede milanese di Metrogramma. «Abbiamo individuato dieci aste che, a nostro avviso, sono ormai anacronistiche: completamente limitanti per la mobilità dolce e pensate esclusivamente per il rapporto auto e pedone, con grandi problemi agli incroci e di traffico. Queste dieci aste rappresentano quasi il 20% della superficie comunale. Abbiamo deciso di prenderne una e di provare a capire come migliorare la situazione. La scelta è ricaduta sulla più discussa, quella più frequentata dai cittadini in termini pedonali e l’unica in grado di attraversare tre realtà completamente diverse per status». Che legame c’è tra un percorso stradale e il contesto sociale che caratterizza quella tratta? «A mio avviso, una strada deve essere in grado di costruire una forma di continuità tra i territori che attraversa. Lavorare su questo aspetto significa recuperare le periferie e restituire più sicurezza alla città. È inutile negarlo: la sicurezza nasce anche dal modo in cui i centri urbani sono progettati. Da questo punto di vista il piano del Governo del Territorio dell’attuale sindaco Sala, che io apprezzo molto, sta spingendo verso una forte sperimentazione in tema di urbanistica tattica». Cos’è l’urbanistica tattica? «È quel complesso di attività che precede un intervento definitivo sulla città. Fondamentalmente si tratta di una serie di esperimenti che chi governa il territorio cerca di attuare per comprendere come - ad esempio - poter razionalizzare i flussi di traffico».
Il solo aiuto di un ingegnere e di un architetto non è più sufficiente per la progettazione di una moderna città
In che maniera vengono effettuati questi esperimenti? «Creando dei percorsi alternativi con la vernice, lungo il manto stradale, o definendo con dei birilli una nuova viabilità. È un modo per condividere con la popolazione un nuovo modello per un dato luogo. Lo si fa in modo temporaneo ed educativo. È un processo grazie al quale la popolazione inizia ad abituarsi all’idea che in un certo spazio sia possibile muoversi anche in una nuova e differente maniera. A Milano lo si sta sperimentando in varie zone. Si tratta, per lo più, di piccoli luoghi ma credo che a breve verrà testato anche nell’ambito di grandi criticità, come Piazzale Loreto. Il nostro progetto si inserisce lungo questo solco per far capire una serie di elementi. Uno di questi è che non si può progettare una città soltanto con un ingegnere e un architetto. In futuro non ci potrà più essere una divisione di questo tipo ma sarà sempre necessario istituire una cabina di regia con un lavoro di pianificazione in cui possano essere coinvolti tutti quei soggetti che, un tempo, non erano nemmeno contemplati fra gli interlocutori di una città. Basti pensare al tema dell’energia: la creazione di infrastrutture ad hoc per la ricarica delle vetture, in futuro, necessiterà di un lavoro molto preciso. L’installazione di colonnine di ricarica o di piastre per la ricarica a induzione, ma anche la possibilità di illuminare le strade soltanto al passaggio dei mezzi o delle persone, così da poter attuare importanti politiche di risparmio energetico, sono tutte attività per le quali è necessario interloquire con chi andrà ad implementare proprio queste tecnologie».
Quindi la visione di questa asta qual è? «Riduzione delle corsie per senso di marcia, introduzione di nuove corsie dedicate ai mezzi di mobilità dolce, dalle biciclette ai monopattini agli scooter elettrici, possibilità di avere marciapiedi molto più larghi con piante e verde. Qualcuno dirà “sì ma sotto c’è la metropolitana” ma in realtà gli alberi si possono piantare anche in rilevato, facendo del bel design, trasformando i vasi in un componente della città. E poi la più importante è quella di introdurre degli elementi di innovazione tecnologica: premiare, ad esempio, con delle corsie dedicate chi utilizzi l’auto elettrica». La riduzione delle corsie non è causa di un aumento del traffico? «C’è questa idea in base alla quale restringendo le corsie ci sarebbe la possibilità che si vengano a creare dei grandi imbuti di traffico. La verità è che il problema è l’ottimizzazione di questi flussi. Per percorrere un chilometro in linea d’aria siamo spesso costretti a farne tre volte tanto con i nostri mezzi di locomozione. È il fatto di convogliare le auto tutte negli stessi posti che crea congestione. Senza contare che lungo strade come Corso Buenos Aires, per esempio, un restringimento perenne della carreggiata è causato dalla presenza costante di auto in seconda fila. Una pratica che è stata legalizzata nei fatti».
Potremmo avere cartelli stradali che cambiano in base all’ora o al giorno della settimana. La tecnologia c’è ma la legge non permette di farlo
La parola chiave, quindi, è razionalizzare. «La razionalizzazione della mobilità generale, in relazione alla sostenibilità, è uno dei punti cardine del ragionamento. Se uno per fare un chilometro, deve farne dieci vuol dire che nove sono di inquinamento. Il vero problema in molti casi, ed è un fatto che con Volvo stiamo prendendo in considerazione nella nostra ricerca, è proprio il codice della strada. Il codice della strada è molto vecchio ed è poco adeguato, secondo me, a questo tipo di trasformazione. Pensiamo solo alla relazione di connessione tra i mezzi e i cartelli stradali. I cartelli stradali sono oggetti pensati, così come li vediamo, decine di anni fa. Oggi noi potremmo avere dei cartelli che cambiano il loro messaggio in base all’ora del giorno o al giorno della settimana. Potremmo avere una segnaletica verticale che devii i flussi di traffico in maniera attiva. La tecnologia c’è ma la normativa in materia non consente di farlo. L’unico modo per fare della sperimentazione, in questo senso, è istituire delle zone franche in cui venga dato un via libera, appunto a titolo sperimentale, con tutti i problemi che questo comporta».
Gli anglosassoni parlano di “piazze condivise”. Dai pedoni, alle auto, passando per i monopattini e le bici: tutti possono circolare al loro interno
Per altro, la segnaletica è sottoposta a normative di rango europeo… «Esatto e, non a caso, i paesi scandinavi sono i più attivi nel tentativo di modificare questo palinsesto normativo. Ad ogni modo è chiaro che le amministrazioni devono andare nella direzione di una flessibilità sempre maggiore, cercando di ragionare su piani di mobilità molto complessi e differenziati. Pensiamo solo al fatto che oggi oltre alle moto e alle macchine ci sono anche moltissime altre tipologie di mezzi. Ci sono per esempio i monopattini - al centro di grandi polemiche, a Milano e non solo. Chi può transitare su quale tipologia di corsia? Sulle piste ciclabili ci possono andare solo le bici? O anche le bici elettriche? Progettare una città, oggi, significa aver ben presente anche tutta una serie di tecnicismi, legati alle varie tipologie di mezzi (le loro velocità, i loro ingombri). Ma una soluzione può essere anche quella della estrema semplificazione in senso opposto». Cioè? «Gli anglosassoni parlano di “piazze condivise”. In sostanza vengono creati degli spazi in cui tutti possono circolare: dai pedoni, alle auto, passando per i monopattini e le bici. Ciò è reso possibile da limiti di velocità estremamente bassi. Tu con l’auto puoi passare ma non devi andare a più di 20 Km/h. E lo devi fare per davvero». Ancora una volta, razionalizzazione. «Io credo che questo sia il vero futuro per recuperare degli spazi che oggi sono completamente segregati. Basta pensare alle nostre piazze milanesi: Piazza Cinque Giornate, Piazzale Loreto, Piazza Napoli… sono tutto tranne che piazze. Sono degli incroci stradali! Facendo invece questo ragionamento è ovvio che si recuperi un sacco di spazio, perché quei luoghi sarebbero riconsegnati ai cittadini, ai pedoni, potrebbero ospitare spazi verdi. Ma perché ciò avvenga serve anche una certa educazione, bisogna sapere che in quegli spazi bisogna andare piano».
La guida autonoma potrebbe essere una soluzione in questo senso? «Se per guida autonoma intendiamo una comunicazione sempre più stretta tra il mezzo e la città, indubbiamente si tratta della strada da perseguire. Ma per fare in modo che questo tipo di tecnologia si diffonda effettivamente, tanto sulle auto, quanto fra le città, ci vuole un accordo trasversale tra tutti i brand e tutte le case automobilistiche». Una legge. «Sì, una legge. Ma prima di arrivare a una legge servono una serie di accordi. E bisogna cominciare a sperimentare. E piano piano, come tutte le innovazioni, questo modificherà la città. Così com’è stato per il casco. Io me lo ricordo quando si diceva “chi lo userà mai il casco?”. Oggi è la realtà. È assolutamente necessario riflettere sulle conseguenze da un punto di vista della qualità della vita delle scelte che compiamo nella progettazione delle città, e cercare di lavorare per fasi. Pensare a una guida completamente autonoma, oggi, non è possibile. Ma cominciare a ragionare su un'implementazione per fasi è molto intelligente e utile».
Volvo ha condiviso con noi il frutto delle sue ricerche sulle automobili di domani. L'idea che si rompa la guerra tra auto e città è stato il cardine della nostra discussione
E quindi, tornando al discorso di prima, per progettare una città, oggi, serve anche potersi relazionare a chi le auto le fa e le farà nei prossimi anni. In questo progetto il lavoro è stato svolto da Volvo. Mi puoi raccontare un po’ com’è nata questa collaborazione? «La nostra collaborazione è nata quasi tre anni fa e ha avuto ad oggetto, fin da subito, l’idea di progettare la città del futuro. Volvo ha condiviso con noi il frutto delle sue ricerche sulle automobili di domani e noi, con loro, le nostre idee su quale direzione debba prendere l’urbanistica nei prossimi anni. La cosa fondamentale è che Volvo ha subito dimostrato una attenzione per la mobilità sicura e sostenibile, che è un punto di vista abbastanza rischioso ma che è nella loro filosofia da sempre. Questa idea che si rompa la guerra tra auto e città e che si arrivi a una pace è stato il cardine della nostra discussione. Ci siamo proprio trovati d’accordo sul fatto che da adesso in avanti auto e città dovranno essere progettate insieme». Come è evoluto il rapporto? «Invece di dare vita a dibattiti molto tecnici e specialistici abbiamo iniziato a chiederci qual fosse l’obbiettivo che ci prefiggevamo, rispetto a quali problemi volessimo suggerire una soluzione, come fare per arrivarci. Sono cose molto complicate: gli appalti, le leggi vigenti oggi… sono problemi molto complessi ma da cui nascono anche idee interessanti. Loro hanno delle innovazioni e noi le sperimentiamo all’interno delle città. Ma anche la città esprimono una serie di esigenze che noi, poi, portiamo a Volvo».
Osservando questo progetto dall’esterno si è portati a pensare: tutto molto bello ma cosa è destinato a vedere effettivamente la luce? «Io ho iniziato una discussione con il sindaco e con l’assessore all’urbanistica Maran e sicuramente Sala ha già fatto sapere che sulle basi di quelle che sono le linea guida del nostro progetto, l’intenzione è di dare forma a un bando per trasformare concretamente e completamente Piazzale Loreto. Io sono disponibile ma ovviamente bisognerà partecipare a una gara e da lì si vedrà. Detto ciò, io vorrei che il nostro progetto e l’interesse da parte dell’amministrazione fossero da stimolo per la nascita di un vero e proprio movimento. In parte questo processo è già in corso. Milano, ad esempio, ha deciso di piantare 200.000 alberi all’anno…». E dove li mettiamo 200.000 alberi all’anno? «Piazzale Loreto razionalizzata potrebbe accogliere oltre 509 alberi. Facile pensare a come arrivare a 200.000 considerando le dimensioni della città».
Times Square oggi è un posto in cui le auto passano una alla volta. È stato fatto a New York, possiamo farlo anche in Piazzale Loreto
Come immaginate possa cambiare la vita di chi abita le zone interessate dal progetto, se questo dovesse prendere forma? «Riqualificare Via Padova in termini di mobilità significa portare benefici ai negozi, a chi si muove sui marciapiedi, a chi utilizza i mezzi pubblici. Cose che sembrano di poco conto ma che cambiano completamente l’assetto di una zona. C’è tantissimo lavoro da fare e, in questo senso, in passato, mi è già capitato di lavorare a progetti che ambivano, apparentemente, a stravolgere le abitudini di alcune zone ma che si sono rivelati vincenti, nel lungo periodo. Con i miei studenti, ad esempio, quindici anni fa abbiamo lavorato sul progetto di riqualificazione della Broadway, a New York. L’idea era quella di ripensare ad una delle strade a più alto scorrimento e interesse commerciale del mondo, come una strada a scorrimento lento». Oggi quella visione è realtà. «Times Square oggi è un posto in cui la gente, d’estate, si siede con le sdraio in mezzo alla strada, in cui le auto passano una alla volta. È il tema degli spazi condivisi, a cui facevo riferimento prima. E si tratta di un processo che ha preso il via in un momento in cui l’ipotesi di una sostituzione del parco circolante con auto elettriche non era minimamente presa in considerazione. Quando lo proponemmo ci venne detto che le grandi griffe della moda si sarebbero opposte, che il commercio ne avrebbe risentito. Oggi se vai a New York a dire che riporti la strada come prima, con tutti i taxi che si fermano e i marciapiedi stretti, ti mandano a quel paese. È stato fatto a New York, possiamo farlo anche in Piazzale Loreto».