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Per i motori automobilistici la soluzione classica prevede che la frizione sia fissata al volano, che a sua volta è montato alla estremità dell’albero a gomiti.
In campo motociclistico la situazione è differente e lo schema usuale prevede che l’albero sia collegato alla frizione da una trasmissione primaria (generalmente a ingranaggi e meno frequentemente a catena). In questo caso la ruota dentata conduttrice è montata su di una estremità dell’albero nei motori con uno o due cilindri mentre è collocata più internamente (talvolta proprio in posizione centrale) in quelli con tre o quattro cilindri, nei quali viene spesso ricavata direttamente di lavorazione meccanica in uno dei volantini dell’albero.
Dunque, la presa di moto, che nei motori dei veicoli a due ruote spesso è centrale o quasi, in quelli delle auto è disposta a una estremità dell’albero. Si tratta chiaramente della soluzione più logica e lineare. Ma è sempre così? Ovvero, ci sono dei casi nei quali uno schema diverso può rivelarsi conveniente?
Uno schema raro ma vantaggioso
La risposta è affermativa, anche se sono stati assai rari i motori che hanno impiegato l’unica soluzione alternativa, cioè una presa di moto disposta centralmente. A questo punto viene spontaneo chiedersi cosa possa avere spinto i progettisti, nei casi in questione, a fare tale scelta. Se si escludono alcune rarissime realizzazioni di schema motociclistico, ovvero con l’albero a gomiti disposto trasversalmente, rispetto al senso di marcia della vettura, l’unica ragione logica è da ricercare nella architettura e nel frazionamento del motore.
E infatti la presa di moto centrale è stata adottata solo in alcuni rari esempi di 12 o 16 cilindri con struttura a V o con bancate orizzontali contrapposte e negli straordinari otto cilindri in linea delle Mercedes-Benz da competizione di metà anni Cinquanta.
Si tratta di motori con albero a gomiti di notevole lunghezza, nei quali le vibrazioni torsionali possono non di rado costituire un problema; effettivamente con una disposizione centrale della presa di moto è come se l’albero stesso venisse diviso in due parti. Un albero molto lungo con la presa di moto a una estremità può tendere ad “avvitarsi” quando a essere nella fase attiva sono i cilindri più lontani (ossia prossimi alla estremità opposta). Come ovvio, la situazione tende ad essere più critica nei motori molto spinti.
Nelle automobili di schema convenzionale, indipendentemente dal fatto che il motore sia collocato anteriormente o posteriormente, l’asse di rotazione dell’albero a gomiti è longitudinale e quindi impiegando una presa di moto centrale si rende indispensabile l’uso di un albero ausiliario per trasmettere il moto alla frizione e quindi al cambio.
BRM la portò in Formula 1
Sul finire degli anni Quaranta, gli inglesi aspettavano con ansia una grande riscossa, dopo le sonore paghe prese prima della guerra dai costruttori italiani e (soprattutto) tedeschi. Raymond Mays è riuscito a creare un vero e proprio consorzio di aziende in grado di fornire un adeguato supporto economico e tecnico con l’obiettivo di realizzare una monoposto in grado di imporsi ai massimi livelli.
È nata così la BRM, la cui prima vettura è stata dotata di un motore di 1500 cm3 a sedici cilindri a V di 135°, sovralimentato per mezzo di due compressori centrifughi a doppio stadio (scelta quanto mai infelice). Complesso e macchinoso, questo motore, che ha fatto il suo esordio nel 1950 ed è stato uno dei fiaschi più clamorosi nella storia della Formula Uno, aveva la presa di moto centrale. L’albero a gomiti era realizzato in due parti, che si univano in corrispondenza del doppio ingranaggio che provvedeva a comandare la distribuzione e a muovere l’albero ausiliario, collocato inferiormente, che inviava il moto alla frizione.
Nel 1951 il V16 della BRM erogava 430 cavalli a 10500 giri/min; oltre ad essere pressoché inguidabile a causa della erogazione di potenza troppo brusca e scorbutica, era afflitto anche da seri problemi di affidabilità.
La soluzione vittoriosa di Mercedes-Benz
Ben diversi sono stati i risultati ottenuti dai formidabili otto cilindri in linea delle Mercedes Benz del 1954-55. Nelle uniche due stagioni in cui hanno gareggiato hanno vinto due mondiali di Formula Uno!
Questi motori avevano una architettura fin troppo classica e addirittura adottavano alcune soluzioni che oramai in campo automobilistico erano uscite di scena. Gli otto cilindri erano in linea, quando praticamente per tale frazionamento tutti i costruttori erano passati alla architettura a V, l’angolo tra le valvole era di 88° e le teste erano in acciaio, realizzate di pezzo con i cilindri (in modo da formare due “blocchi” di quattro ciascuno), come nei motori d’aviazione di molti anni prima e come nei motori delle vetture da GP della casa di Stoccarda costruite negli anni Trenta.
Al tempo stesso però si trattava di autentici concentrati di tecnologia, dalla incredibile raffinatezza costruttiva, nei quali spiccavano l’iniezione diretta e la prima distribuzione desmodromica davvero efficace (e non adottata solo a livello sperimentale) della storia. L’albero a gomiti era un capolavoro di meccanica: lavorava interamente su cuscinetti a rotolamento ed era di tipo composito, con i vari elementi collegati con il sistema Hirth.
In posizione centrale, proprio tra i due blocchi di quattro cilindri, si trovavano la presa di moto e la cascata di ingranaggi che comandava la distribuzione. Di questo motore di 2500 cm3 è stata realizzata anche una versione con cilindrata aumentata a 3,0 litri, destinata alla 300 SLR che ha dominato il campionato mondiale per vetture sport del 1955, imponendosi tra l’altro nella mitica Mille Miglia.
In questo caso i blocchi cilindro-testa erano in lega di alluminio, con canne cromate, e l’angolo tra le valvole era stato portato a 96°.
Due anni prima della comparsa degli otto cilindri Mercedes, l’Alfa Romeo aveva realizzato un motore a dodici cilindri orizzontali contrapposti di 2,5 litri, destinato alla rivoluzionaria monoposto da Gran Premio tipo 160 (rimasta purtroppo sulla carta), nel quale si impiegava una presa di moto centrale. Pure lo sfortunato motore trasversale della Bugatti 2500 di Formula Uno del 1956 adottava questa soluzione.
I V12 di Maserati e Honda
Per trovare altri motori automobilistici da competizione con presa di moto collocata centralmente bisogna passare ai primi anni Sessanta, quando è entrato in vigore il regolamento che limitava a 1500 cm3 la cilindrata per le vetture da GP. Due case hanno adottato la stessa architettura costruttiva e lo stesso frazionamento, all’insaputa una dell’altra.
Si tratta della Maserati e della Honda che hanno optato entrambe per un V12 con asse dell’albero a gomiti trasversale rispetto al telaio e con cambio in blocco, secondo uno schema tipicamente motociclistico. Il motore della casa modenese è stato realizzato ma non è uscito dallo stadio di prototipo, mentre quello del costruttore giapponese è stato costruito in due versioni e ha corso nel 1964 e nel 1965.
I tecnici della Coventry-Climax, che all’epoca forniva i suoi V8 di Formula Uno alla Lotus, plurivittoriosa soprattutto per merito del grande Jim Clark, con l’obiettivo di ottenere potenze più elevate hanno pensato di aumentare il frazionamento arrivando addirittura a realizzare nel 1965 un motore a sedici cilindri contrapposti. L’albero a gomiti, particolarmente lungo, era in due parti (ognuna delle quali “serviva” otto cilindri) che venivano collegate tra loro per mezzo di un grosso ingranaggio centrale che provvedeva ad azionare la distribuzione e ad inviare il moto alla frizione per mezzo di un albero ausiliario.
Questo motore appariva molto promettente, per quanto riguarda le prestazioni, ma è arrivato troppo tardi. L’entrata in vigore nel 1966 del nuovo regolamento che prevedeva per le F1 motori aspirati di 3000 cm3 ha portato alla cancellazione del programma e al ritiro della Coventry-Climax dalla scena agonistica.