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In previsione della entrata in vigore il nuovo regolamento di Formula Uno che prevedeva a partire dal 1966 motori aspirati con una cilindrata massima di tre litri (1500 cm3 per i sovralimentati), la Honda ha iniziato per tempo la progettazione di un nuovo V12, affidandola a Shoichiro Irimajiri. Questo giovane e brillantissimo tecnico proveniva dal settore moto, nel quale poco tempo prima aveva disegnato la straordinaria 250 a sei cilindri da Gran Premio.
Il risultato dell’impegno di questo progettista e dei suoi collaboratori è stato un motore con dodici cilindri a V di 90° (invece dei 60° “canonici”, con questo frazionamento) che abbinava soluzioni tipiche della scuola motociclistica con altre di netto stampo automobilistico. Spiccavano tra l’altro le teste con condotti di aspirazione downdraft, piazzati tra i due alberi a camme (ossia al centro della V formata dalle due file di valvole) e le canne dei cilindri in ghisa realizzate in gruppi di tre, che venivano appoggiati superiormente ai loro alloggiamenti praticati nel blocco motore. L’albero a gomiti, che lavorava interamente su cuscinetti a rotolamento, era di tipo composito (sette pezzi uniti per forzamento alla pressa) e poggiava su otto supporti di banco.
Tra i due centrali c’era una grossa ruota dentata che, oltre a comandare le due cascate di ingranaggi che azionavano la distribuzione, trasmetteva il moto a un albero ausiliario, il quale provvedeva ad inviarlo alla frizione e quindi al cambio. Gli scarichi erano collocati tra le due teste, in posizione centrale.
Questo motore, apparso nel 1966, si è poi evoluto nello RA 300 E, che ha vinto a Monza l’anno successivo e che era accreditato di una potenza dell’ordine di 420 cavalli. Per il 1968 la Honda ha sviluppato una versione profondamente riveduta di questo V12, contrassegnandola con la sigla RA 301 E. Le teste erano completamente diverse mentre la parte inferiore rimaneva quasi invariata. In quanto alla potenza, si parlava di circa 440 cavalli a un regime di 11500 giri/min.
Nel 1966, oltre alla Honda di F1 ha fatto la sua comparsa anche un altro V12 con presa di moto centrale. Si trattava di un poderoso motore di ben sei litri di cilindrata, con distribuzione monoalbero, realizzato dalla Abarth. In pratica, poteva essere considerato il risultato della unione di due V6. Denominato “tipo 240”, abbinava un alesaggio di 92 mm a una corsa di 75 mm ed erogava 610 cavalli a soli 6700 giri/min. Tra le sue particolarità spiccava l’adozione di un angolo tra i cilindri di 120°, valore inusitato per un V12 automobilistico. Questo motore, progettato da Luciano Fochi, era nato con l’obiettivo di azionare una vettura Sport, destinata principalmente a gare di endurance come la 24 Ore di Le Mans, e forse anche una stradale di altissime prestazioni. Purtroppo è rimasto allo stadio di prototipo.
Nella storia del motorismo le automobili belle, veloci e ricche di contenuti tecnologici non sono certo mancate. Alla straordinaria Porsche 917 spetta però un posto a parte. Capolavoro assoluto, per tre anni è stata schierata dalla casa di Zuffenhausen in Europa, cogliendo successi a ripetizione, tra i quali spiccano due 24 ore di Le Mans (nel 1970 e nel 1971). Cambiati i regolamenti, è andata a correre negli USA, in versione “barchetta” con motore sovralimentato, sbaragliando la concorrenza nella gare della Can-Am nei due anni in cui ha gareggiato (1972 e 1973). Questi risultati formidabili sono stati ottenuti grazie a una superiorità tecnica indiscutibile.
Il motore, progettato da Hans Mezger, era raffreddato ad aria e aveva dodici cilindri contrapposti, con teste e cilindri singoli. Il basamento in lega di magnesio si apriva secondo un piano mediano verticale, che tagliava a metà gli otto supporti di banco. La versione originale, che ha esordito nel maggio del 1969, aveva una cilindrata di 4,5 litri, ottenuta abbinando un alesaggio di 85 mm con una corsa di 66 mm, ed erogava inizialmente 520 CV, ben presto passati a 580 a 8400 giri/min. L’albero a gomiti, forgiato in acciaio da cementazione al nichel-cromo-molibdeno, era dotato di sei perni di manovella, su ciascuno dei quali erano montate due bielle in lega di titanio.
Tra i due perni di banco centrali l’albero era munito di un ingranaggio che trasmetteva il moto a un albero ausiliario, il quale a sua volta lo inviava alla frizione. L’olio destinato a lubrificare le bronzine di biella entrava nell’albero a gomiti dalle due estremità, tramite canalizzazioni assiali. Il circuito di lubrificazione a carter secco prevedeva una pompa di mandata e due di recupero principali, più altre quattro di piccole dimensioni che prelevavano il lubrificante dagli alloggiamenti degli alberi a camme. La distribuzione era bialbero con due valvole per cilindro, inclinate tra loro di 65°. I cilindri, ottenuti per forgiatura, erano in lega di alluminio, con riporto di cromo sulle pareti interne.
Nel 1970 la cilindrata di questo motore è stata portata a 4,9 litri (le misure caratteristiche sono passate a 86 x 70,4 mm) e la potenza è salita a 600 cavalli. L’anno successivo, nel quale sono stati adottati cilindri con riporto Nikasil, grazie a un lieve ritocco all’alesaggio si è poi arrivati a 5,0 litri e la potenza è cresciuta a 630 CV a 8300 giri/min.
La versione per le gare del campionato Can-Am, sovralimentata mediante due turbocompressori e con cilindrata portata a 5,4 litri, disponeva nel 1973 di ben 1100 cavalli, in assetto di gara.
In Germania diciassette anni dopo è stato realizzato un altro motore da competizione a dodici cilindri contrapposti. Si tratta del bellissimo C 291 destinato alla Sauber-Mercedes, nella versione per il campionato di endurance del 1991. Del progetto la casa di Stoccarda aveva incaricato Willy Muller, che ha realizzato un motore di grande spessore tecnico, nel quale spiccavano soluzioni molto interessanti, a cominciare dalla disposizione dei condotti di aspirazione e di scarico.
Questi ultimi erano rivolti verso l’alto, cosa che consentiva di piazzare il motore molto in basso all’interno della vettura, il che contribuiva a portare il baricentro più vicino al suolo. Per i condotti di aspirazione si era optato per una disposizione downdraft. Erano pertanto orizzontali e passavano tra i due alberi a camme di ogni testa. Ogni bancata era costituita da una singola fusione che comprendeva il gruppo di sei cilindri con la relativa testa. Al centro del motore si trovavano tanto il comando della distribuzione (affidato a due cascate di ingranaggi) quanto la presa di moto, costituita da una coppia di ruote dentate che azionava l’albero ausiliario posto nella parte superiore del basamento. Le quattro valvole di ogni cilindro erano disposte su due piani inclinati tra loro di 40°.
La cilindrata di 3500 cm3 veniva ottenuta abbinando un alesaggio di 86 mm con una corsa di 50,1 mm. La potenza, dopo lo sviluppo iniziale, è arrivata dalle parti di 650 CV a 13000 giri/min.
Questo motore bellissimo è stato sfortunato. Dopo una messa a punto lunga e travagliata ha potuto mostrare le sue grandi qualità vincendo alla grande l’ultima gara del campionato 1991. I programmi sportivi della Mercedes-Benz erano però cambiati e non prevedevano più la partecipazione al mondiale di endurance…
Per terminare questa panoramica sui motori da competizione con presa di moto centrale occorre menzionare due V12 di 3,5 litri apparsi nel 1990 e destinati ad essere impiegati sulle monoposto di Formula Uno.
Il Porsche tipo 3512 aveva una architettura a V di 80° ed era in pratica costituito dalla unione di due V6. L’ingombro e il peso erano considerevoli e, dopo alcune prove non molto convincenti effettuate nel 1991, il suo sviluppo è stato abbandonato. L’austriaco Neotech era a V di 70° e pare fosse pronto nel 1990, due anni dopo l’inizio della progettazione. Non è però mai sceso in pista, forse anche per ragioni economiche.