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Quell’uomo semplice nei modi e tanto garbato, che ispira simpatia anche per quel suo modo di parlare italiano, è un mito vivente dell’automobilismo che cammina tra la folla del Mi.Mo. 2022. Anche fenomeno da libro di testo per Economia, vedendo i risultati della sua azienda nata dal nulla, negli anni Novanta. Parliamo di Horacio Pagani, classe 1955, che è venuto a guidare una delle sue splendide e ambite vetture sulle passerelle milanesi in occasione del Salone nazionale.
Non lesina commenti a ogni argomento gli si proponga, Pagani, eppure può permettersi di dire “no” a facoltosi clienti in cerca di una delle sue hypercar sempre esaurite, a ogni nuova versione messa in produzione.
Come procedono i lavori sulle ultime creature e cosa ci possiamo attendere? “Una delle cose belle che vedo nello sviluppo è come lavoriamo rapidamente noi ma anche Mercedes, sul motore. Una storia che parte da quando convinti al tempo di fare un 12 cilindri da zero, per noi: un anno e mezzo dalla firma progetto, e arriva la prima consegna. Eccezionale. Ora abbiamo questo V12 evoluto man mano, che punta ai 9.000 giri e prevede revisioni ai 10.000 Km, non male per un cliente. Per il prossimo modello puntiamo alla facilità di guida e alla sicurezza. Saranno poche le auto, già vendute con buone premesse. Perché al primo evento dove siamo andati in pista, al Paul Ricard, sono subito andate forte: come pure GT da gara, ma guidabili da tutti, anche non piloti”.
Quale la sfida maggiore oggi, per il vostro target di auto e di clienti, molto elevato. “Quella di saper dare un servizio in pista al top come Ferrari, che è un riferimento per come lo fa nel programma FXX. Noi vogliamo un cliente che si diverte sempre, per questo abbiamo pensato a una vettura realmente nuova in ogni parte. Non ci sono elementi riciclati e nel definirla abbiamo ricercato sempre la bellezza, prima anche dell’aerodinamica stessa. Che suona strano ma funziona: man mano che la abbellivamo, abbiamo limato prestazioni e peso. Ora siamo a soli 1.070 Kg”.
Quali elementi, di una hypercar pura e leggera alla guida, si possono addolcire per non renderla proibitiva al volante? “Varie cose, come il comfort in vettura. Non manca nulla, a partire dalla climatizzazione e poi ci siamo limitati ai 1.000 kg come carico aerodinamico. Se si esagera (ma è già questo un valore elevato, ndr) l’auto soddisfa un pilota che corre, ma diventa meno agevole o addirittura pericolosa, per un gentleman driver”.
Quando dice che la sua prossima vettura la potranno guidare bene quasi tutti, vuole dire che i collaudi sono stati fatti fare anche a tester non smaliziati di hypercar? “No, usiamo i nostri tester come Andrea Montermini e molti altri, professionisti, ma ho notato una cosa: 5.000 chilometri di test in pista, senza un testacoda…”.
Cosa ne pensa del ruolo teoricamente pronto da interpretare, per vostre nuove hypercar elettriche? “E’ destino e la stiamo sviluppando, la nostra prima vettura a batteria. Dico però contro il mio interesse, per come ci investiamo dal 2018, che purtroppo è qualcosa non facile da far passare, a molti. Facciamo delle indagini sulla clientela e non sono tanti quelli davvero interessati, anzi quasi nessuno. Anche a livello ambientale, se contiamo l’uso energia in attuale da carbone, gas e petrolio, solo una parte è pulita e non molta lo sarà tra venticinque anni. Seguiamo la tendenza ma le nostre auto, se pur diventassero solo elettriche, impattano davvero poco. Rispetto per esempio a quanto incidono le navi cargo. Oltretutto, a livello di prodotto non è facile fare una hypercar BEV che soddisfi. Al momento i nostri prototipi hanno a bordo 600 Kg di batteria, che arriva dall’Asia con quanto ne consegue per l'ambiente. Di certo servono le piccole BEV, per uso da città, ma fare delle vere auto sportive estreme che emozionino tanto, elettriche, non è facile. Non serve averla con oltre 1.000 un’elettrica, se non emoziona. Noi vogliamo dare quello, sempre e prima delle prestazioni, che si possono ottenere più facilmente”.
Molti parlando di idrogeno, usato in vario modo. “E’ un elemento molto buono, ci puntano specialmente in Giappone e funziona, ma gestirlo è difficile per auto sportive del nostro livello, anche per i soli rifornimenti”.
Possiamo dare una stima di quanto spendete in ricerca e sviluppo? “Molto e costantemente, anche se varia: in passato abbiamo toccato percentuali intorno al 20%, ora siamo vicini al 15% negli ultimi anni”.
Dice che tiene moltissimo all’affidabilità, quella che Mercedes gli ha dato sotto quei cofani dove lei riconosce di non voler metter mano, ma come viene gestita una Pagani a livello di ricambi quando capita, magari dopo molti anni? “Ringrazio Mercedes che mi ha creduto, io non posso fare un motore che deve essere il massimo e anche affidabile. Loro sebbene grandi, sono sempre disponibili e persino umili quando ci relazioniamo, è un onore. Per l’assistenza, contiamo oggi addirittura 700 parti lavorate da noi, con elementi realizzati dal pieno e una tracciatura precisa. Teniamo un book, con la storia di ogni auto. Su triplice copia, per sicurezza di tutti visto che ogni nostra auto può differire, da un’altra. Lo stock ricambi per le 450 auto vendute a oggi è completo e da quel book si risale a tutto. Se un fornitore ha problemi, non lesiniamo spese nell’acquisirne le strutture e gli stampi, per poter riprodurre quanto serve in futuro. Anche per i motori, abbiamo tutto in casa, unità intere. Almeno su una stima di dieci anni, garantiti, non manca una vite delle nostre auto al cliente cui possa servire”.
È stupefacente il fenomeno Pagani a livello di prezzi e quotazione modello, fa quasi impressione. “Sì, diamo valore al cliente. E' una cosa a cui tengo e le stime dicono che in venticinque anni si rivalutano molto più della media, le nostre auto. Tra le moderne nessuna è migliore, tranne McLaren F1 e qualche raro caso”.
Avete una particolare politica di prezzo, toccando cifre per pochi? Quando li definite, sfruttate analisi particolari magari esterne, schemi per centrare alcuni target? “Puntiamo sempre e solo alla soddisfazione del cliente e il fatto che le nostre auto valgano tanto, sempre più, è una grande soddisfazione. Ammetto che prima certe quotazioni correvano troppo. Vedevo una mia auto valere un milione in più dopo un solo anno, ma quando definiamo i prezzi preferiamo stare persino indietro, anche se la richiesta è tanta. L’ultima vettura che stiamo preparando (C10) è andata già venduta, prenotata, con un anno di anticipo. Una soddisfazione vedere tornare clienti a prendere un’altra delle nostre auto. Le omologhiamo per uso in tutto il mondo, ma limitiamo i volumi secondo i mercati (in USA ne vorrebbero più del doppio, ndr) per darne a tutti i Paesi principali. A questo proposito però, ricordo sempre ai miei figli e collaboratori quanto ho visto accadere in Lamborghini, nel 1991 con la guerra del Golfo: non si può mai sapere, basta poco e le cose peggiorano anche su certi target (si producevano due Diablo al giorno e la volontà era di puntare a quattro, visto il mercato, ma con la prima notte di guerra si fermarono ordini e ritiri: circa novanta auto poi invendute!).
I suoi fan la conoscono tutta, ma ricordare almeno gli inizi della sua carriera, è sempre interessante, con aneddoti unici da rinverdire. “Sono stato fortunato, per la passione che ho sempre avuto in abbondanza, ma il mio Paese era senza una cultura dell’auto a certi livelli. Osservavo, disegnavo e sperimentavo, ma ho subito capito che la zona di Modena, in Italia, era il centro di certe cose. E ci sono poi arrivato, partendo da zero”.
Con l’aiuto di un suo connazionale importante, non è segreto. “Certo, sono riuscito a conoscere Fangio e non ho esitato a chiedergli aiuto, per trovar modo di arrivare in Italia. Dove ho anche le mie origini, perché se mio padre era un panettiere in Argentina, prima il nonno era un semplice emigrato dell’Italia, dalla zona di Como, a fine ottocento. Un secolo dopo, nel 1982 Fangio mi ha presentato e proposto a ben cinque aziende italiane a cui ambivo: Alfa, Ferrari, Lamborghini, Maserati e Dallara. Poi è venuto il resto”.
Per qualcuno lei è l’uomo del carbonio. “Ho fatto un corso da ragazzo, in Argentina, proprio sullo sviluppo di certi materiali per uso non solo su auto e mi affascinava. Vedevo il carbonio come elemento ottimo per certe forme, lo vedevo arrivare in F.1. Lo vedevo anche bene per come faticavano certi uomini in fabbrica a lavorare il metallo. Così quando ho potuto provare in Lamborghini, a fare la prima concept, è andata bene ed è venuta fuori in fretta. Grazie a un finanziamento che lo permetteva e un giovane ingegnere aeronautico. All’inizio ho seguito il lavoro in un ruolo semplice per telaio e carrozzeria, ma poi non ho più abbandonato la sperimentazione. In azienda non si volle però un’autoclave come desideravo, non la aveva nemmeno la Ferrari. Io mi feci dare un prestito in banca e la comprai, per conto mio! Oggi produciamo anche decine di elementi, nostri e in fibra, che servono ad altri settori come nel mondo di aerei, elicotteri e non solo”.
Che auto possiede e quali preferisce, ammesso di potersele godere, tra moderne e classiche? “Non guido moltissimo, ma ho di tutto e prenotiamo prima che escano le migliori vetture delle grandi Case, elettriche incluse. Avviene per Porsche e tutti i marchi classici, ma è accaduto anche appena ho saputo della Ford GT, bellissima tra le moderne. Ho una Tesla, ma soprattutto delle storiche, come Jaguar E-type cabrio del 1963 (la vera preferita, a detta di suo figlio Christopher, ndr) e poi la Porsche 917 da gara. Tra le Ferrari due Dino e una TDF one-off. L’ultima riuscita a prendere? Una 275 GTB4, preserie”.
Non sono poche le storiche nel garage privato di Pagani e nemmeno i richiami alla tradizione tricolore. “Cito sempre i grandi pionieri dell’auto e li vogliamo sempre rispettare, con il nostro lavoro di oggi. Non solo i grandi nomi noti, come Enzo Ferrari e Ferruccio Lamborghini, per quello che hanno creato di incredibile con le loro capacità, partendo dal basso. Anche Maserati e poi molti uomini di officina. Per esempio Scaglietti: uno oggi pensa alla versione di Ferrari, ma era una persona semplice, partita come manovale. Umile, che andava a lavorare a piedi e quando ebbe la sua prima bici, la usava anche senza pedali pur di averla con sé, spinta. Ai nostri uomini e clienti raccontiamo anche la storia, di certo motorismo”.