Per inviarci segnalazioni, foto e video puoi contattarci su info@moto.it
In realtà i piccoli motori stanno abbandonando la scena, ma la colpa non è del downsizing. Una decina d’anni fa, per merito della iniezione diretta, nei benzina, e del common rail, nei diesel, la potenza ottenibile da una certa cilindrata era così elevata da consentire un notevole ridimensionamento del volume e del numero dei cilindri.
Per esempio, dai classici diesel “due litri” si poteva ottenere una coppia in grado di far pattinare le ruote anche in terza marcia (e di provocare frequenti danni ai cuscinetti del cambio). Si dovette pertanto ricorrere a una limitazione del combustibile iniettato agendo elettronicamente sulla centralina che gestiva l’iniezione. Ovviamente, tale riduzione agiva esclusivamente quando erano innestate le marce basse.
Nei benzina abbiamo assistito alla riduzione del numero dei cilindri: tre - per tutte le marche europee e asiatiche - o addirittura due come nel caso del Twin Fiat. In tutti i casi, con la cilindrata di un litro sono garantiti almeno 75 cavalli, e a volte molti di più. Potenza più che sufficiente per una utilitaria, specie se confrontata col passato. Per esempio, quando nel 1955 uscì la Seicento (633 cm3), aveva una potenza di 21,5 cavalli. La Mini (848 cm3), lanciata nel 1959, ne aveva 34. Oggi da un diesel 1500 si toccano agevolmente i 130 cavalli. Nel 1980, le 2500 a gasolio raggiungevano a malapena gli 80 cavalli.
Questi numeri giustificano egregiamente la spinta al downsizing, sviluppata dopo il 2000. Ma oggi sta di nuovo cambiando tutto. Osservando i progetti delle Case e le tendenze del mercato, notiamo che:
- sono spariti i diesel al di sotto della cilindrata 1500;
- nel segmento A vengono progressivamente cancellati i progetti per nuove utilitarie a benzina, sostituite da vetture urbane a batteria.
Nel caso dei diesel, la spiegazione è chiara: l’infausta demonizzazione di questo motore ha portato Bruxelles a imporre limiti (di peso e di numero) al particolato e agli ossidi di azoto. Mentre il PM10 e il PM2.5 sono stati agevolmente superati col FAP, per gli NOx è stato necessario ricorrere a un catalizzatore selettivo riducente SCR. Il quale oltre a essere oltremodo costoso, richiede al cliente il continuo rifornimento di urea per l’iniezione supplementare. Come se non bastasse, i limiti da rispettare nella classe Euro 6 sono stati resi più severi, anno per anno, in tutte le condizioni di marcia e non solo al banco. Morale, il diesel di piccola cilindrata è diventato troppo “pregiato” e costoso per il segmento A, al punto che le Case hanno ritenuto di eliminarlo dalla gamma. A malincuore, perché dal punto di vista del riscaldamento globale presenta l’innegabile vantaggio di un’emissione di anidride carbonica ridotta del 25-30% rispetto a un “benzina” di pari potenza. Pertanto il diesel appare ormai come ideale solo per vetture potenti e pesanti, e soprattutto grandi viaggiatrici, ove il prezzo di acquisto viene agevolmente compensato dalla economia di esercizio.
Per i motori a benzina, il discorso è rovesciato. Sono decisamente più economici dei diesel, ma il nuovo ciclo WLTP di misura degli inquinanti e della CO2 emessa, si è rivelato penalizzante nella valutazione dei consumi reali, ovvero della CO2. Il peggioramento va dal 15 al 25% in più dei valori registrati col vecchio ciclo NEDC. E siccome presto saranno proprio i nuovi valori di CO2 che determineranno salate multe per quelle Case che non rientreranno nei limiti di gamma da rispettare, ecco che vengono esaminate le alternative.
Posto che il migliore dei motori a benzina accoppiato alla vettura più leggera, con la migliore aerodinamica e con i pneumatici a più basso rotolamento, a mala pena riesce a stare (nel vecchio ciclo) sotto i 95 grammi di CO2 al km, come risolvere il problema futuro? Come ottenere che l’intera gamma di una marca rientri nei limiti? Agendo sulle vetture di piccola cilindrata - in genere poco remunerative - oppure su quelle al top, che consentono prezzi e margini maggiori? O, infine, acquistando crediti dai marchi che producono solo auto a batteria, oppure, all’opposto, scegliendo di non fare nulla e pagare sanzioni, che poi finirebbero col penalizzare anche i clienti, dal momento che tasse di acquisto e vincoli alla circolazione dipenderanno dai valori di CO2? E se pensiamo che è al vaglio di Bruxelles la proposta di portare il limite di CO2 a 50 grammi/km nel 2030, ci accorgiamo che nessun motore - da solo - può farcela.
La soluzione (parziale) è l’ibrido, ma è alquanto costosa, soprattutto per le piccole cilindrate. Recenti studi tedeschi hanno messo in luce che nella vita reale l’ibrido non rispetta quei valori di consumo denunciati come veri dalle Case, ma - al contrario - dimostra consumi da due a quattro volte più elevati. Per giunta nel nuovo ciclo WLTP l’anidride carbonica emessa dalle versioni ibride non risulta così vantaggiosa come col vecchio ciclo. Quindi l’ibrido (mild o full) non è la soluzione ideale per il futuro, anche perché tutta l’energia elettrica proviene dal serbatoio di benzina. Lo sarebbe il plug-in, perché può attingere da fonti rinnovabili, ma questo tipo di ibrido è esattamente corrispondente - quanto a caratteristiche della batteria - a un’auto 100% elettrica. Quindi ancor meno appetibile per via del costo.
E se costruissimo motori ancora più piccoli? E’ vero che un motore piccolo si comporta meglio di uno grande per quanto riguarda i consumi, ma ogni propulsore, per quanto piccola sia la cilindrata è simile a una centrale termica: ha bisogno di un sistema di raffreddamento con tanto di pompa e di radiatori, uno di lubrificazione con pompa e filtri, uno di accensione con candele e distributore di corrente, uno per la produzione di energia elettrica per gli accessori, uno per la messa in moto, con motorino elettrico e tanto di batteria per farlo funzionare, perché a differenza dei motori elettrici non parte da solo. E farne uno con rendimento ottimizzato costa molto di più che produrne uno standardizzato.
Oggi le scelte le fa l’amministratore delegato, che da qualche tempo non è più un tecnico puro, come, per esempio, Carlos Tavares, gran capo di PSA, che nel contratto firmato con l’azienda ha previsto la facoltà di godere alcuni weekend sulle piste, a gareggiare nelle competizioni. I presidenti attuali sono manager più sensibili al marketing e alle finanze che alla passione per i motori o per il loro rombo. Per loro, vendere, non importa cosa, basta che opinione pubblica gradisca e clienti la comperino. Ed ecco allora il ragionamento.
Per l’80% della produzione automobilistica, il motore è un semplice accessorio, come negli Usa da diversi anni. Doppio asse a camme in testa o quattro valvole per cilindro sono virtuosismi da ingegneri appassionati. Lo stesso vale per le sospensioni. Il valore “spendibile” e riconoscibile di una vettura sta nel design della carrozzeria e nei suoi interni. Ma acquista sempre maggior peso la gestione elettronica della guida, della sicurezza, delle comunicazioni, del comfort. Adottare un motore elettrico al posto del termico significa fare a meno di cambio, di frizione, di radiatore e di tutti gli altri impianti. Nasce qualche problema per il condizionatore e il riscaldamento invernale, ma con una buona batteria è superabile.
Già la batteria! Pesa tanto, contiene poca energia ed ha un costo fuori mercato. Ma i governi sono ormai tutti propensi ad accollarsi il costo delle batterie mediante generosi incentivi. Quindi il passo è breve, toglie i mal di testa ai capi e soprattutto porta crediti in fatto di CO2, perché una vettura 100% elettrica viene considerata da Bruxelles con CO2 pari a zero, anzi fino a poco fa era premiata tre volte. E quei marchi che vogliono continuare a produrre Suv, wagon e potenti auto sportive hanno fame di crediti green.
Il segnale lo ha dato proprio Citroen che dopo aver cancellato alcuni anni fa il diesel 1.4 dalla C1 del segmento A, ha ora deciso di produrre una mini vettura urbana, totalmente elettrica. E progetti analoghi stanno apparendo un po’ dappertutto. E’ una vera svolta? Non abbiamo la sfera di cristallo. Però dobbiamo fare due considerazioni finali, che portano a due risposte opposte.
Il futuro è ancora aperto.