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Con la scomparsa di Ferdinand Piech il mondo dell’auto perde uno dei suoi più grandi geni, una personalità forse irripetibile forgiata dall’essere nato e cresciuto in una famiglia in cui l’automobile era il pane quotidiano in anni in cui lo sviluppo tecnico conobbe un progresso eccezionale.
Piech è riconosciuto unanimemente come un grande della storia industriale mondiale, prima da ingegnere e poi da manager. L’Italia, per citare uno delle decine di riconoscimenti che ha ottenuto durante la sua lunga ed avventurosa vita, nel 2015 gli assegnò il titolo di Cavaliere di Gran Croce al Merito per meriti verso la Nazione.
Sì, perché in effetti c’è un po’ di Ferdinand Piech in qualsiasi auto, dalla più umile alla più raffinata. Prendiamo due delle sue realizzazioni più recenti, come la Bugatti Veyron e la Volkswagen XL1, due esempi che testimoniano della sua vulcanica inventiva.
La prima è stata la vettura di serie più sofisticata mai realizzata, la prima con la targa a superare i 400 km/h di velocità massima, la prima con una potenza oltre i 1.000 CV. Fu un suo pallino, che volle ed ottenne anche a costo di bruciare un’enorme quantità di denaro. All’altra estremità dello spettro, la piccola XL1, la prima automobile di serie (anche se ne sono state realizzate appena 250) a scendere al di sotto della soglia dei consumi di 1 l/100 km.
Sono questi due modelli che meglio spiegano quale era la visione di Piech, una visione dell’automobile a 360°. Piech si prefiggeva un obiettivo e lo raggiungeva, anche quelli più estremi, anche quelli apparentemente più stravaganti.
Una delle sue prima realizzazioni di successo fu la Porsche 917: nel 1968, da responsabile dello sviluppo dell’azienda che porta il nome del nonno Ferdinand, investì i ¾ del budget destinato alle corse nello sviluppo di una vettura in grado di sbaragliare la concorrenza, attiradosi però le dure critiche dei familiari. Nacque così la 917, che con il suo largo uso di leghe come magnesio e titanio e carrozzeria in poliestere diventò presto la vettura più vincente di quegli anni non solo alla 24 Ore di Le Mans, gara per la quale era stata espressamente progettata, ma anche nella popolarissima Can-Am americana.
Il suo tocco rivoluzionario lo impresse soprattutto ad Audi, che trasformò in una validissima concorrente di BMW e Mercedes percorrendo strade tecnicamente alternative, come la trazione integrale che volle sulla Audi Quattro degli anni ‘80 (indimenticabile la coppia delle signore Michèle Mouton-Fabrizia Pons), coupé che regalò alla Casa di Ingolstadt numerosissimi successi nei rally con una soluzione tecnica che negli anni a venire sarebbe diventata uno standard.
Audi è quello che è oggi grazie alle sue intuizioni, come il telaio in alluminio della Audi A8 del 1994, la prima auto di serie con chassis in lega leggera. Era in alluminio anche quello della Audi A2 del 1999, originale monovolume che puntava tutto sulla parsimonia grazie ad un peso ridotto ed all’abbinamento con motori Diesel di cilindrata ridottissima, come il 3 cilindri 1.2 TDI che anticipava di un ventennio un’architettura oggi popolarissima nel segmento delle “small”.
Tentò di dare un’aura di prestigio alle “auto del popolo” all’inizio degli anni 2000 con la Volkswagen Phaeton, ammiraglia tecnicamente e qualitativamente eccelsa (montava anche motori destinati ai brand di lusso della galassia VW come il 6.0 W12 o il 5.0 V10 turbodiesel) per la quale fece realizzare una fabbrica nuova di zecca a Dresda che aveva la particolarità di essere trasparente per poter mostrare a tutti cosa accadeva all’interno, come le cucine a vista di certi ristoranti stellati. Ma fu accolta tiepidamente e la Phaeton fece perdere molti soldi a VW.
Sono questi solo alcuni esempi estremi della versatilità di progettista di Piech, il cui capolavoro maggiore, apparentemente azzardato come molte delle sue idee, fu quello di riunire sotto l’ombrello di un’unica azienda tantissimi marchi diversi tra loro riuscendo nell’obiettivo di fare profitti con la massiccia condivisione di progetti e componentistica.
Oggi lo ricordiamo soprattutto come grande manager, ma nella sua autobiografia lui si descriveva così: «Mi sono sempre visto come una persona dedita al prodotto e mi sono sempre affidato al mio istinto per la domanda del mercato. Gli affari e la politica non mi hanno mai distratto dal cuore della nostra missione: sviluppare e realizzare automobili attraenti».