Dakar 2015. La doppia immensità del "paddock" a Tecnopolis

Dakar 2015. La doppia immensità del "paddock" a Tecnopolis
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Tre giorni per ottenere il definitivo lasciapassare per la Dakar sono tanti. Ma per i partecipanti è l’ultima forca caudina prima dell’abbassarsi della bandiera a scacchi | <i>P. Batini, Buenos Aires</i>
2 gennaio 2015

Verifiche amministrative: uno stillicidio

Buenos Aires - È facile perdere il filo. La prima tappa della Dakar “vivo-live” dura tre giorni, non un metro di deserto sotto le ruote, nessun confronto, con il “nemico” o contro il cronometro. Tre giorni interminabili, come agli albori della Dakar quando una tappa poteva durare anche tre-quattro giorni. Questi sono giorni diversi, ma non meno lunghi e sfinenti. Burocrazia. Dannato, e anche pretestuoso (non sarebbe neanche il caso di precisarlo) stillicidio di inutilità.

 

In cambio stress, e la pericolosa potenzialità di perdere il senso della misura prima ancora di partire. Ma è così da sempre. La macchina organizzativa della Dakar è enorme, e forse ASO, come TSO prima e come Thierry Sabine dal primo giorno, non aveva altra scelta. Sta di fatto che per ottenere l’ultimo “timbro” sulla tabella delle verifiche può passare un’intera giornata, o anche di più se qualcosa è andato storto. E può succedere che un Pilota verifica il primo giorno, e il suo amico o compagno di team l’ultimo, e che uno resti in ballo per tutti i tre giorni, a disposizione. Vale per tutti, equipaggi, piloti, assistenti, giornalisti. Tutti devono fare la fila agli sportelli obbligatori e fermarsi ad ognuna delle stazioni del percorso. Velocità da littorina, regionale… lento.

Tecnopolis: l'enorme "paddock" della Dakar

Tutto è concentrato, si fa per dire, nei cinquanta ettari del Parco del Bicentenario della Repubblica argentina, limite Nord della metropoli Buenos Aires, dove dal 2011 va in scena Tecnopolis, la più grande… mega mostra di scienza e tecnologia. Tra i capannoni delle mostre, le infrastrutture, i parchi giochi per i bambini e, per fortuna, i viali che affettano tanto verde, lo spettacolo del brulicare di spettatori e partecipanti alla Dakar è gigantesco, straripante, euforico. 

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I meccanici preparano i mezzi in maniera meticolosa in vista delle severissime verifiche tecniche

 

Da una parte il primo “bivacco” della Dakar 2015, meglio definirlo un paddock, l’atmosfera permeata della febbrile preparazione dei mezzi da gara, dall’altra la scacchiera degli ambienti destinati alle operazioni preliminari, amministrative da un lato e tecniche dall’altro, all’ombra delle cattedrali di lamiera e cemento armato. I Piloti si muovono lentamente, consumati da un’apparente noia, in realtà divorati dall’eccitazione della partenza, imminente eppure ancora così lontana. Ogni ora che passa è un’iniezione di adrenalina velenosa, che gonfia il polmone dell’ansia e tende l’arco della pazienza. È in questo frangente, ancora così maledettamente teorico, che si genera il rischio, una volta che scatta il via, di una partenza sopra le righe, troppo impetuosa.

Dakar: per un pilota una corsa imprescindibile

Iniziano i Sudamericani, di stanza per lo più non lontano, che sono stati tra i primi a raggiungere la Capitale argentina. L’ordine di passaggio alle verifiche segue anche lo schema del crescendo d’importanza dei nomi in ballo, come in ogni spettacolo che si rispetti. Per ultimi arriveranno i big, cui è concesso il massimo dello spazio temporale della tre giorni “preliminare” per mettere e punto la propria macchina da guerra, e per controllare l’affilatura delle proprie armi di talento, classe, agonismo.

Che lo sia o no, Pilota, fare la Dakar è una cosa che una volta nella vita va fatta. E fatta una, rassicuratevi, difficilmente sarà l’ultima


Lo spettacolo è grandioso, ma gli attori principali finiscono per essere inesorabilmente impacciati, come davanti alla prospettiva di una prima troppo importante. Diventano persino innaturali, che per un attore è il difetto per definizione. Tra le “stazioni” della contabilità, del Tracking, delle carte di circolazione e il tagliando dell’assicurazione, delle dogane, del satellitare, della licenza e del bilancio medico, della benzina e del badge, un’intero “doppione” di timbri da raccogliere, sentono il bisogno di sfogare l’ansia, di un contatto umano.


Talvolta si lasciano andare, e pensando ad altro le sparano grosse. Sono qui per vincere, per un test di motore per una Marca, per allenarmi per il prossimo giro del mondo senza… scalo, perché un Pilota non può aver fatto una Dakar. Questa è vera. Che lo sia o no, Pilota, fare la Dakar è una cosa che una volta nella vita va fatta. E fatta una, rassicuratevi, difficilmente sarà l’ultima. Del perché si può trattare sino al mese prossimo, ma in ogni caso è qualcosa che sovrasta passione e sfida, ragionevolezza e cuore. Che lascerà un segno nella vita. Altri avvertono più chiaramente quella sensazione di essere un pelo fuori sintonia e cercano di esorcizzarla, listandone gli effetti collaterali nocivi. Come i nostri due Fratelli che si sono preparati meticolosamente, che non ne possono più di aspettare come tutti gli altri, ma che placano gli effetti dell’ansia con l’autocritica, l’autocontrollo, tenendo fermamente i piedi per terra.

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Quelli che precedono la partenza sono momenti molto delicati 

Verifiche tecniche: nulla è lasciato al caso

Finite le verifiche amministrative si passa alle tecniche, per esempio scarichi, sigilli, luci, dotazioni di sicurezza, casco, acqua e razzi, tracking e radio “balise”. Ancora timbri a caselle riempite, fino alla sintesi compiuta del rispetto di 130-150 pagine di regolamento. L’ambiente è più introspettivo, ma solo perché il capannone è meno illuminato e perché ogni Pilota ed ogni Equipaggio si presenta da solo, intervallato dal proprio mezzo da sottoporre alla verifica e al completamento estetico con gli adesivi della corsa e degli sponsor… della corsa.


I Big aspettano il giorno dopo, o l’ultimo. Una capatina a Tecnopolis, per conoscere la lunghezza d’onda della musica che li aspetta o per assolvere a qualche impegno istituzionale della Marca o dello Sponsor che rappresentano, poi via, in albergo o ad effettuare gli ultimi, ultimissimi test, in ogni caso lontani dalla bolgia infernale delle verifiche. O ancor più lontani, come Alessandro Botturi che arriva a Buenos Aires alla sera del primo dell’anno e che vedrà il Parco del Bicentenario solo il giorno successivo. Meno ansia, più controllata, a trecento chilometri da Buenos Aires non solo piove meno, ma gli effetti dei fumi di adrenalina pre-Dakar arrivano smorzati. Passa un giorno. Ne restano due. Ma non sono solo ventiquattro ore, o quarantotto.

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