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In occasione dell’annuale assemblea dell’Unione Petrolifera, il Presidente Claudio Spinaci, sollecitato dall’intervistatore Mario Sechi, ha fatto il punto sulla situazione riguardante i carburanti di origine fossile.
Una doverosa presentazione: romano, 58 anni, ingegnere meccanico, da una vita nel settore (per oltre 20 anni in Exxon Mobil, per poi diventare a.d. di Total-Erg), dallo scorso ottobre Spinaci è Presidente dell’UP: nessuno, forse, è più titolato di lui per prefigurare gli scenari prossimo-venturi che attendono l’industria petrolifera nel nostro Paese.
«Intanto una premessa: lavorando da oltre 30 anni nel settore, sento davvero tutto l’orgoglio di far parte di un’eccellenza nazionale, un patrimonio di cultura e professionalità che non va disperso. Oggi è evidente che viviamo una fase di transizione che coinvolge le nostre attività: ma è altrettanto evidente che i prodotti petroliferi, i carburanti di origine fossile che sono stati il propulsore del Paese negli anni passati, lo rimarranno ancora per i prossimi due o tre decenni».
Qual è lo scenario con cui l’industria petrolifera italiana si sta confrontando?
«Oggi andiamo verso un’economia low carbon, con una riduzione costante dei prodotti petroliferi che valutiamo in circa -1% l’anno: un fenomeno importante, che va governato con attenzione per evitare contraccolpi sull’economia se si sbaglia la tempistica. Non bisogna cadere, infatti, nell’equivoco di ritenere mature tecnologie che non ancora lo sono e penalizzare invece altre, come le nostre, che sono mature e che possono essere ancora indispensabili. La transizione tecnologica è un’opportunità, che però rischiamo di perdere con un approccio ed ideologico e demagogico: il problema della CO2 interessa quasi tutte le nazioni del mondo, ed ora, chi riuscirà per ogni euro investito ad ottenere il massimo della riduzione, e traguardare gli obiettivi ottenendo il massimo guadagno, otterrà un vantaggio competitivo enorme sugli altri Paesi».
«Prendiamo l’esempio delle centraline di ricarica: se l’energia elettrica viene prodotta utilizzando al 50% una fonte a carbone, non si tratta di energia “pulita” così come viene fatto intendere»
Nelle sue parole si avverte una preoccupazione…
«In Italia, purtroppo, non mi sembra si stia andando nella giusta direzione, perché si procede in modalità ideologica: anticipare i tempi prospettando come praticabili tecnologie non ancora mature è un errore, una sorta di speculazione per guadagnare quote di mercato sbandierando slogan falsamente ambientali. Prendiamo l’esempio delle centraline di ricarica: se l’energia elettrica viene prodotta utilizzando al 50% una fonte a carbone, non si tratta di energia “pulita” così come viene fatto intendere. Ancora: sento parlare di una rete di centraline costituita da circa 20.000 punti; ebbene, la rete elettrica attuale sarebbe in grado di supportare la richiesta di energia che deriverebbe dalla loro entrata in funzione? E chi si dovrebbe accollare la spesa di installazione di tale struttura su base nazionale, che valutiamo in circa 450 milioni di euro? Oggi però si ritiene che l’avvento della propulsione elettrica come un dato di fatto, mentre i tempi tecnici impongono maggiore cautela».
Questa l’analisi della situazione riguardante la gestione politica del sistema; ma anche le aziende petrolifere hanno da lavorare per migliorare le performance. Cosa state facendo in tal senso?
«Venendo al nostro settore, le considerazioni precedenti confermano che bisogna intervenire su tutta la filiera, procedendo per ottenere più efficienza nella raffinazione e mettendo mano ad una vera ristrutturazione della rete e diversificando la proposta commerciale aprendoci ad altri settori merceologici. In Italia ci sono oltre 21.000 punti vendita: troppi rispetto alla media europea e troppi anche a fronte del prezzo industriale più basso perché siano tutti sostenibili senza entrare nella zona grigia dell’illegalità. Il contrasto alle vendite fuorilegge ed al contrabbando si svolge in con la prevenzione, in collaborazione con Guardia di Finanza, Polizia e Carabilnieri, ma abbiamo bisogno anche di un sostegno dal punto di vista normativo per arrivare alla chiusura dei punti vendita non più compatibili con le regole del Codice della Strada: sarebbero circa 3.000 in ambito comunale e così saremmo più vicini alla soglia prefissata dei 15.000 distributori di carburante nella Penisola».
In chiusura, il messaggio che lanciate è di non cadere nell’errore di valutare come ormai al capolinea l’intera filiera della produzione petrolifera: sarete ancora utili al Paese?
«Ovviamente sì. E, soprattutto, non vogliamo essere considerati un settore destinato a scomparire, ad eclissarsi del tutto a breve, nel corso di due o tre anni: al contrario, crediamo che per almeno due o tre decenni la mobilità non potrà fare a meno di benzina e diesel».