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Non ci hanno mai corso in Italia i protagonisti del WEC, ovvero il Mondiale Endurance, formula attiva dal 2012 con titolazione FIA, che include la prestigiosa 24 ore di Le Mans come evento principale. Pare che per il futuro una mezza idea di far rivivere la 1000 Km di Monza però ci sia, affiancando il mitico tracciato tricolore a quelli di Silverstone, Spa-Francorchamps, Nürburgring e Fuji, tanto per citarne di storici. Le misure sono già state prese con il prologo dello scorso weekend, di cui ampiamente discusso su queste pagine e avendo detto che le protagoniste maggiori sono loro, le Case costruttrici che ereditano in questo campionato il ruolo che ebbero nel Mondiale Marche del secolo scorso, passiamo ai piloti.
Chi e come sono i fortunati conduttori dei più raffinati e prestanti prototipi a quattro ruote su pista? Quelli che hanno un contratto parecchio invidiabile con grandi costruttori i quali certo non investono poco, per accaparrarsi vittorie molto importanti sportivamente e per la propria immagine. Una grande cosa li differenzia dalla F1: non la velocità, molto simile anche se l’ultimo record in gara del GP Italia è a quasi cinque secondi dalle LMP1 (debuttanti in tutti i sensi, paiono avere buon margine) ma il fatto che per il pubblico non smaliziato, a vincere o perdere sia la tal macchina eventualmente condotta da qualcuno che la condivide con altri due, non ben identificabile dietro a quella superfice vetrata ricurva; mentre la monoposto, che passi davanti a una tribuna o allo schermo, è comunemente additata con il nome del pilota riconosciuto tramite casco.
In un lontano passato, il pilota di vertice dell’Endurance era in contemporanea presente anche sulle Formule, con gli anni lo stereotipo è divenuto sempre molto più esperto e magari con pure qualche capello bianco. Se non per forza un consumato asso del volante, quantomeno uno dal grande vissuto sportivo, per stare sulle vetture ufficiali candidate alla vittoria. In periodo più recente, quando si chiamava Mondiale Sport Prototipi, era già cominciata però la nuova moda di usare giovani di gran potenziale uniti ai veterani per alcune folte squadre ufficiali: esempio perfetto fu quello che vide Mercedes appoggiare tre ragazzi di nome Karl Wendlinger, Michael Schumacher e Heinz-Harald Frentzen. Oggi, quando si va a conoscere la squadra ufficiale LMP1 di Porsche, quella che ha vinto titolo e 24 ore di Le Mans per due stagioni di fila, chiamata dalla dirigenza tedesca a compiere l’hat-trick, arrivano in sei nell’incontro con la stampa. Nessuno gode di fama elevata presso il pubblico italiano che non segua il Motorsport, eppure sono sei sedili che chiunque, giovane o meno, invidierebbe. Il più “anziano” ha 36 anni, Timo Bernhard, il più giovane 26, Earl Bamber, mentre quello più alto di tutti che gli si pone a fianco 27: Brendon Hartley, da Palmerston North. Un tipo molto snello, con capelli biondi, occhi azzurri e tono preciso tutt’altro che simile a quelli dei poster in bianco e nero presenti a Monza, dove si ricordano gli idoli spesso baffuti o sporchi di un tempo lontano.
Parliamo con lui non di tecnica, ma di come sia correre la gara più famosa del mondo, la 24 ore di Le Mans, con uno stemma iconico e blasonato come quello Porsche. Poco di meglio esiste, pensando di fare il pilota professionista di auto su pista e lui lo sa bene: sono solo due i prototipi ufficiali da meno di 900 Kg con quasi 1000 CV di tecnologia ibrida che da Stoccarda vengono schierati. È una certa responsabilità ma il ragazzo pare essere tanto pulito e giovane quanto professionale ed equilibrato, formato dalle continue esperienze con grandi Case sin da quando era minorenne. “è un sogno che si realizza, correre a Le Mans con Porsche, una di quelle cose che emoziona sino a piangere anche gli adulti”. Sui kart già a sei anni, dieci anni fa Hartley sbarca in Europa dopo aver vinto in patria con F.Ford e Toyota, ottenendo al debutto un titolo Renault Eurocup che gli apre le porte del poco distante mondo Red Bull, con un percorso che pareva simile a quello di Sebastian Vettel.
Nonostante i contratti da terzo pilota e tester, per Red Bull stessa o Toro Rosso, la guida vera in F1 non arriva, per vari motivi non solo di prestazione, come sottolinea Brendon, al contrario dei primi podi con le ruote coperte, sino al WEC nella sua prima edizione, del 2012. Pur conservando un contratto da “simulator development driver” con Mercedes, Hartley procede con i prototipi e le gare di durata sulle piste vere, tra cui quelle americane della Grand Am e dal 2014 è in forza alla vincente squadra Porsche del Mondiale Endurance. Nel 2015 è campione del mondo insieme a Webber e Bernhard. Se gli si domandi di qualche rammarico per la F1, non nega che quella formula lo abbia attirato molto, ma ricorda “Sono fortunato ad aver messo i piedi dove li ho ora, dopo aver capito che non era facile avere un buon sedile in F1 ho scoperto casualmente cosa si prova a correre e vincere in LMP e davvero amo Le Mans”. Già pare che per esserci, dove si trova, sia servita anche una semplice mail di candidatura al team manager. Oltre a non lesinare le sue esperienze e risultati, quando lo si punzecchi, ricorda soprattutto l’importanza del lavoro in squadre formative come è Porsche stessa, che lo ha affiancato a Mark Webber “un grande che mi spiace aver perso come compagno, da cui si imparava molto”. Fa strano pensando all’esempio tedesco del 1990 citato prima e ai rivali giapponesi di oggi, che hanno un loro connazionale in ognuna delle tre auto per Le Mans, osservare i due più giovani del gruppo Porsche in LMP1: sono entrambi neozelandesi. “Credo che Porsche scelga i suoi piloti per come sanno guidare, non per la nazionalità o altro e meno male!”. Già, Porsche che gli da di che essere onorato, lo ammette sempre e gli da anche belle auto per girare in quel di Monaco, dove vive quando è in Europa, pur se preferisce allenarsi pedalando in bici, ricordando spesso la sua terra “37 ore di viaggio per fare le festività a casa” e il mito di quel connazionale fortissimo, Chris Amon, vincitore proprio 50 anni orsono della 1000 Km monzese, ma soprattutto di Le Mans nel 1966.
È proprio lì che vorrebbe raggiungerlo nel risultato, non prima di un altro suo connazionale, con cui condividevano il medesimo kart club da bambini e cui la cosa è già riuscita, ma insieme: perché come allora Amon vinse in Francia condividendo il volante con un certo Bruce McLaren, neozelandese quanto lui, oggi il sedile della 919 Hybrid numero 2 è anche di Earl Bamber. Obiettivo dichiarato: emozionarsi e magari anche piangere, per una vittoria a Le Mans, tornando a Monza tra un anno non a provare ma a correre. “È un posto stupendo, come tracciato ma soprattutto atmosfera, ho visto passione e gente anche per dei semplici test”. Già test nel senso vero, quando si parla di WEC, dove la sua Porsche ha percorso ben 329 giri dello stradale monzese.