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In occasione di un evento organizzato dalla Camera di Commercio Britannica, condotto da Gianfranco Fabi, Vice Direttore del Sole 24 Ore, e sponsorizzato da Europ Assistance, abbiamo avuto modo di incontrare Alberto Bombassei, Presidente e Fondatore di Brembo, azienda conosciuta in tutto il mondo in particolare per l'eccellenza garantita dai suoi impianti frenanti.
Quali sono le origini di Brembo?
«Brembo, come tantissime Aziende italiane, nasce come un'azienda a conduzione famigliare. Mio papà conosceva il mondo automobilistico, quindi io e mio fratello siamo cresciuti respirando questo ambiente. Abbiamo così aperto insieme una piccola officina meccanica, io mi occupavo più della parte commerciale, mentre mio fratello di quella meccanica. Eravamo giovani ma è stata un'esperienza importantissima da un punto di vista formativo, soprattutto perché abbiamo iniziato a confrontarci con persone di diversa estrazione sociale».
Quando arrivano i primi prodotti?
«L'azienda nasce negli anni '60, anche se il primo lotto di produzione degno di questo nome arriva tra il 1954 e il 1965».
Brembo oggi è conosciuta in tutto il mondo per la produzione di freni a disco. Come avete iniziato ad avvicinarvi a questa tecnologia?
«I freni a disco compaiono per la prima volta su una Jaguar alla 24 Ore di Le Mans, sviluppati da aziende inglesi. I primi ad utilizzarli in Italia sono gli uomini dell'Alfa Romeo, che allora era un marchio che produceva super sportive e cercava le massime prestazioni. Un giorno la Casa di Arese, a cui fornivamo una serie di componenti meccanici, ci mandò i dischi dei freni di un veicolo Alfa incidentato da analizzare ed eventualmente da aggiustare. All'epoca i freni a disco prodotti in Inghilterra venivano considerati il non plus ultra della tecnologia e trattati come se fossero gioielli di Cartier. A noi invece, quando li abbiamo presi in mano per la prima volta, sono sembrati semplicemente dei pezzi di ghisa, niente di così irraggiungibile da un punto di vista tecnologico. E, da bravi italiani, un po' da bergamaschi, ci siamo detti: ma questi li possiamo fare anche noi!»
E quindi avete iniziato a produrli voi stessi...
«Sì. esattamente, abbiamo detto all'Alfa Romeo che non c'era più bisogno di far arrivare i freni a disco dall'Inghilterra, ma che la stessa Brembo avrebbe potuto produrli e fornirli. Ecco come sono nate le prime forniture di freni a disco della Brembo, che all'inizio non superavano qualche migliaio di pezzi. Per aver un raffronto oggi produciamo 45 milioni di pezzi».
Ad un certo punto della vostra storia avete quindi imboccato la strada giusta, ma non sareste arrivati ai traguardi di oggi senza continuare ad innovare, non è vero?
«Sono sempre un po' imbarazzato a parlar bene della mia azienda. Ma non posso evitare di ammettere che una delle cose che ci ha contraddistinto è stata la volontà quasi maniacale di cercare di fare sempre qualcosa di meglio rispetto a quello che era lo stato dell'arte attuale. Fin dall'inizio per esempio abbiamo messo in discussione l'utilizzo della ghisa per i dischi, cercando di utilizzare nuovi materiali e di migliorarci. Per questo da sempre investiamo in Ricerca&Sviluppo molto più della media dell'industria automotive».
“Da bravi italiani, un po' da bergamaschi, ci siamo detti: ma questi freni a disco li possiamo fare anche noi!”
La vostra ambizione vi ha portato presto a bussare alla porta della Ferrari. Ci racconta com'è andato il primo incontro con il Commendatore?
«Oltre all'importanza riservata alla Ricerca, abbiamo sempre investito moltissimo nelle competizioni. Per questo con un pizzico di coraggio e un pizzico di incoscienza, tipica di quando si è giovani, un giorno, nel 1975, siamo andati a bussare dal buon Enzo Ferrari, dicendo che eravamo pronti con i nostri freni a disco a buttarci nelle competizioni. Non so quanto abbia contato la sua lungimiranza o la sua voglia di dare una chance ad un giovane ragazzo che si metteva in discussione per una nuova sfida, ma sta di fatto che il “Drake” ci diede una possibilità. Alla fine i nostri freni andarono così bene che a distanza di oltre 30 anni siamo ancora fornitori della Ferrari».
E non avete smesso neppure di lavorare nelle competizioni. Oggi siete legati in modo particolare alla Formula 1, siete gli unici fornitori?
«Oggi oltre alla Scuderia Ferrari forniamo impianti frenanti a tutti i team di F1 tranne uno. Per essere onesto dovrei dire che i freni in Formula 1 sono prevalentemente Brembo, mentre molte delle restanti componenti sono della AP Racing, un'azienda britannica di proprietà... della Brembo (ride, ndr). AP Racing è un'azienda storica inglese ed erano tra i nostri migliori concorrenti, per questo, anche dopo la nostra acquisizione abbiamo voluto che i due team tecnici di sviluppo continuassero ad operare in autonomia, facendosi una sorta di concorrenza interna, ovviamente in termini amichevoli, ma con l'obiettivo di migliorarsi continuamente».
“Non so quanto abbia contato la sua lungimiranza o la sua voglia di dare una chance ad un giovane ragazzo che si metteva in discussione per una nuova sfida, ma sta di fatto che il “Drake” ci diede una possibilità”
Oggi Brembo è una realtà internazionale, in quanti Paesi siete presenti?
«Siamo presenti in 17 Paesi e abbiamo 35 stabilimenti sparsi in giro per il mondo. Mi piace sottolineare a questo proposito che anche in anni difficili Brembo non ha mai tagliato la quota destinata non solo alla Ricerca&Sviluppo ma anche alla internalizzazione. Investire sempre in nuovi mercati ci ha permesso di affrontare le sfide in maniera più forte».
Quale strategia bisognerebbe adottare a suo avviso per far ripartire l'economia italiana?
«Anni fa gli analisti americani hanno convito gli industriali a delocalizzare gli stabilimenti, sostenendo che l'industria non doveva più far parte del mondo evoluto ma dovesse essere riservata ai Paesi in via di sviluppo. Mai una previsione si rivelò più sbagliata, tanto che gli Stati Uniti negli anni passati hanno raggiunto i livelli di disoccupazione più alti della loro storia recente. Da bravi americani hanno prima riconosciuto l'errore, poi hanno ricominciato ad industrializzare il Paese tornando ad investire nell'industria, senza dimenticare di investire in Ricerca. E in poco tempo i risultati si sono visti, tanto che la disoccupazione ora sta scendendo».
«In Italia abbiamo un tasso di disoccupazione del 13% che diventa del 43% se consideriamo solo quella giovanile. Credo che le persone della mia generazione abbiano quindi una parte di responsabilità nel dare alle giovani generazioni delle speranze per un futuro. Secondo me bisognerebbe tornare a guardare di più al modello degli Stati Uniti, del resto a scuola si copiava dai compagni bravi non da quelli che prendevano brutti voti. Non ci manca niente a noi Italiani, si tratta solo di trovare la volontà politica e poi economica di tornare a voler essere un Paese pienamente industriale».