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Quando assunse la guida dell'azienda che fino a ieri ha condotto per 14 anni di fila, era l'1 giugno del 2004, Sergio Marchionne disse: «Il cambiamento manageriale, di persone e di mentalità, sviluppa la responsabilità, favorisce la rapidità decisionale e l’attivazione di sinergie tra le funzioni e porterà sicuramente molti benefici, a livello di efficienza operativa, gestione delle risorse e riduzione dei costi».
Nessun accenno alle auto, alle emozioni, alla tradizione tutta torinese di costruire automobili. Questa era la mentalità dell'ex ad di FCA che per motivi di salute ha dovuto lasciare con due anni di anticipo rispetto ai programmi il timone dell'azienda che per un decennio e mezzo ha traghettato da una crisi profonda alla ripartenza.
Poco prima della sua scomparsa, Umberto Agnelli, che lo aveva voluto nel cda come indipendente un anno prima, aveva visto in quel manager italocanadese con residenza in Svizzera il successore ideale. L'investitura non fu immediata, ma passò per il breve interregno di Giuseppe Morchio durato appena 15 mesi ed interrotto da divergenze con la famiglia Agnelli sulla carica di presidente voluta da Morchio, che invece andò al fedelissimo Luca di Montezemolo.
Il Gruppo torinese era allora in profonda crisi: 8.100 esuberi, perdite pari a un terzo del capitale, valore del titolo ai minimi storici. Alla guida ci voleva qualcuno competente e di pochi scrupoli, non un sentimentale, un “car guy” come dicono gli americani, definizione che lui stesso ha sempre rifiutato. Marchionne era perfetto: le banche, la Borsa, gli strumenti finanziari, il management, la gestione aziendale per lui non avevano segreti. E Marchionne fu.
«Il vero valore di un leader non si misura da quello che ha ottenuto durante la carriera ma da quello che ha dato. Non si misura dai risultati che raggiunge, ma da ciò che è in grado di lasciare dopo di sé», ha scritto John Elkann annunciando l'addio a Marchionne. Cosa lascia in eredità Marchionne all'azienda che prese come Fiat e oggi lascia come FCA? Tantissime cose, non tutte positive, ma del resto guidare l'azienda più importante d'Italia è un compito che insieme agli onori non mette al riparo da qualche passo falso, oltre che da critiche e malcontenti. Vediamo quali.
Gli USA
Negli USA le Fiat erano oggetto di uno sfottò piuttosto pesante: «Fix it again Tony» («Aggiustala di nuovo, Tony»), dicevano oltreoceano delle auto italiane. La pessima reputazione portò alla progressiva ritirata. Le ultime Alfa Romeo sul mercato nordamericano furono vendute nel 1995.
Con Marchionne invece, la Fiat ha trovato un uomo in grado di farsi addirittura ringraziare dagli uomini più potenti del mondo, i presidenti Barack Obama prima e Donald Trump poi. Fiat tornò infatti negli USA nel 2009 da salvatrice della patria, o meglio, della moribonda Chrysler, inglobata sotto le insegne della “Fiat Chrysler Automobiles”. Di recente poi Trump lo ha elogiato per il suo sostegno all'occupazione americana.
Un altro accordo importantissimo voluto dal manager nato a Chieti è poi quello con Google, insieme alla quale FCA sta sviluppando i sistemi di guida autonoma che per molti rappresentano il futuro dell'automobile. Per riuscirci ci voleva un manager di caratura internazionale, che conoscesse bene usi e costumi del mondo degli affari nordamericano. Come Marchionne, per l'appunto, che ha riportato negli States nel 2009 le Fiat e le Alfa nel 2014.
Il “miracolo” Jeep
A proposito di USA. Uno dei migliori frutti dell'operazione di salvataggio di Chrysler è stato lo sfruttamento del marchio Jeep, che ad oggi è quello più in forma dell'intero Gruppo. Con Jeep Marchionne ha rilanciato un brand fino a qualche anno fa di reputazione molto scarsa sia in Europa che in Cina, dove adesso spopola. Non è un caso che il suo successore sia stato individuato in quel Mike Manley co-artefice dei suoi successi, un uomo in grado di passare dai 337.000 veicoli del 2009, anno della sua investitura, agli 1,4 milioni del 2017.
Il ripianamento del debito
Da un lato, sul piano dei prodotti, la gestione del manager in maglioncino si può definire certamente positiva, ma senza troppi acuti. Gli ambiziosi volumi di vendita più volte annunciati e, sinora, mai raggiunti da Alfa Romeo sono un cruccio sia per i milioni di estimatori della Casa del Biscione, ma anche per lui stesso che poco tempo fa ha fatto un onesto “mea culpa”.
Così anche per Lancia: marchio dal glorioso passato fino agli anni '90, è stato progressivamente accantonato. Marchionne ha sempre respinto le accuse in nome della ragion di stato. Nel 2014 spiegò: «Abbiamo provato per dieci anni a cercare di piazzare la Lancia specialmente nei mercati mediterranei. Ma la Lancia è stata per dieci anni in perdita come è stata in perdita l’Alfa Romeo. C’è una realtà commerciale che dice che il marchio Lancia al di fuori della rete italiana ha pochissimo valore».
Scelte dure, sicuramente difficili da prendere, ma che hanno fruttato il risultato che si era prefisso fin dalla sua investitura nel 2004: ripianare il debito anche a costo di dolorose rinunce. La missione oggi è quasi compiuta.
Relazioni industriali più libere
Sergio Marchionne ha amato poco le corporazioni: durissimi gli scontri con la Fiom-Cgil guidata da Maurizio Landini, sia nelle fabbriche che nelle aule dei tribunali, fino al rifiuto del contratto nazionale dei metalmeccanici nel 2010 e la richiesta ai sindacati di una serie di concessioni, alcune anche piuttosto pretenziose, per investire a Pomigliano nella produzione della Panda.
Da liberista convinto, Marchionne decise nel 2011 di uscire da Confindustria. Non voleva avere imposizioni sui modelli contrattuali da adottare negli stabilimenti italiani, anche a costo di abbandonare il salotto buono del “padronato” italiano. Spiegò all'allora presidente degli industriali Emma Marcegaglia che «Fiat, che è impegnata nella costruzione di un grande gruppo internazionale con 181 stabilimenti in 30 paesi, non può permettersi di operare in Italia in un quadro di incertezze che la allontanano dalle condizioni esistenti in tutto il mondo industrializzato».
Un futuro elettrico
Marchionne detesta le auto elettriche. Ai tempi di Obama fu costretto a fare la 500 elettrica e commercializzarla in alcuni stati USA perché obbligato dalle norme locali. E lo diceva apertamente: «Per ogni 500 elettrica venduta negli USA perdiamo 20.000 dollari». Ma il cambiamento in un settore ad alta tecnologia come quello dell'auto è sempre dietro l'angolo. Ecco dunque che secondo il piano quadriennale illustrato lo scorso giugno, le propulsioni ibride ed elettriche rappresenteranno il futuro di FCA, come del resto lo sono per ogni altro costruttore, più per necessità dettata dalle norme antinquinamento che per convinzione.
In questo FCA pare ad oggi un passo indietro rispetto ai competitors, che offrono almeno una EV in gamma da anni. Il Lingotto però ha in cantiere una motorizzazione elettrificata per ogni modello, un investimento da 9 miliardi da qui al 2022 che dovrebbe endere il Gruppo in grado di competere su ogni fascia di mercato, dalla piccola Fiat 500 fino alla Maserati Quattroporte.
Di questo, da oggi, dovrà però occuparsene Mike Manley.