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È il terzo pezzo che parla di John Surtees in breve tempo, su Automoto.it: ci sarà un legame forte con l’ex-pilota britannico in quel di via Melzo, pur se non correva dal 1972 e l’età di molti redattori è quella dei suoi nipoti, o è solo un po’ disattento chi scrive l’ultimo articolo, in ordine di cronologia? Nessuna delle due in verità. Quando se ne va un protagonista dall’ineguagliabile passato sportivo, ci possono stare sia le righe d’immediata notizia, con successivo approfondimento di chi è inviato sulle piste dove sir John ha scritto parte della sua storia, sia qualcos’altro di informale, visto che non ce ne sono di piloti che abbiano vinto i titoli iridati nelle due massime categorie su pista di auto e di moto (F1 e Motomondiale 500, nello specifico). Soprattutto non sappiamo nemmeno se e quando ce ne sarà un secondo francamente, che il nuovo vivere socialmente condiviso grazie alla rete ci potrebbe poi far conoscere in dettaglio, come avviene oggi per grandi star e non solo.
Ecco il punto: com’era dal vivo un mito del motorismo sportivo anni Sessanta, dalla carriera irripetibile, che ha fatto negli autodromi cose realmente per pochissimi, passando in diversi ruoli e che sino a poco prima di morire passeggiava ancora nei paddock? Di sicuro in tempi recenti esibiva un atteggiamento molto cordiale e modesto, celando quasi quella porzione magica del proprio DNA che qualunque pilota gli invidierebbe e che almeno in parte, si poteva presumere avesse tramandato a quel figlio morto troppo giovane, Henry, nato a febbraio e corridore in pista come lui, fermatosi alla F2. Ne portava in testa certo sempre i ricordi e spesso il cappellino dell’omonima fondazione benefica, cui teneva molto conoscendo bene le necessità di malati e ospedali. Aveva già sfiorato egli stesso la morte, nel 1965 in Canada, per un bruttissimo incidente dai seri postumi e più di recente per problemi di cuore; persino la sua attuale moglie l’aveva conosciuta durante un periodo di cure. Era però un uomo sorridente e molto positivo con chiunque, in quegli ambienti motoristici che gli avevano dato tanto, più che ad altri, ma tolto anche troppo, umanamente. Negli anni recenti, alla sua figura divenuta certo poco appariscente o vivace in mezzo al fragore dei motori, si accompagnava talvolta quella della figlia Edwina, dal medesimo sorriso.
Quando incontravi il più anziano dei campioni del mondo F1 in vita, era evidente il suo lontano decennio di nascita (gli anni Trenta) quello indiscutibilmente e forse anche troppo. Non perché fosse così malmesso, ma perché dentro un ambiente frenetico e luccicante come quello della F1 attuale, saturo di eccessi d’immagine ovunque si guardi, Surtees rispecchiava invece il più semplice degli uomini over80 che si rallenta e addolcisce nei modi, pur indurendo i naturali lineamenti di volto e mani, quelle grandi e consumate, che usava per mimare i movimenti di auto o moto nei suoi racconti. Lo conobbi grazie a una persona che lavorò con lui nel momento bello in Ferrari (perché non furono tutti belli) ospite proprio della Rossa durante gli anni in cui a far correre e provare le monoposto F1 orfane dell’indimenticabile V12, sulle piste erano un irlandese e un tedesco scaltri al volante circa quanto i piloti dei tempi di Surtees e anche per quello amati. Che sensazione strana: quei due che insieme al Cavallino riempivano di urla e fischi, secondo i casi, le tribune o le transenne gremite di ogni autodromo europeo, con folla che si accalca e lui, nella tranquillità assoluta lì a pochi metri, quasi ignorato, a pronunciare qualche parolina d’italiano con chi lo ascolti. Ricordi semplici fatti di attività tutte a misura d’uomo, spesso anche manutenzioni o messe a punto manuali, per veicoli che ben conosceva grazie anche al suo passato da apprendista. Sembrava sempre più un vecchietto qualunque col passar del tempo, di quelli che mostrano una certa fatica del momento perché non più agili nei modi, ma anche del passato, doloroso in tutti i sensi. Con questa sua aria di assoluta ordinarietà, non condivisa con il suo più minuto e vispo connazionale dell’organizzazione (Bernie Ecclestone, nato tre anni prima di lui) portava in tasca un invidiabile poker di titoli nelle 500, oltre quello in F1, per non contare gli allori in classi minori e le molte vittorie prestigiose di ogni sorta (per esempio con i Prototipi, o al TT) talvolta in più di una categoria nella medesima stagione.
Vederlo negli anni Dieci attuali era come vedere un protagonista del mondo lavorativo dei suoi tempi in qualunque altro settore o quasi, non si penserebbe a una star mondiale ma semplicemente a uno che ha fatto il “mestiere” duro, nel suo caso collaudando, prima di portare a vincere, moto e monoposto non facili e tantomeno sicure, dove si moriva facilmente. Uno che non è arrivato al top del motorismo sportivo con alle spalle chissà cosa, ma piuttosto un lavoro presso la rivendita moto del padre, a Croydon. Certo poi il destino lo ha portato a collaborare con mostri sacri delle migliori squadre corse del secolo scorso, da Ken Tyrrel e Colin Chapman, fino a Enzo Ferrari; ma non si parte passeggeri su un sidecar per gioco, nel dopoguerra e poi si vince tanto con i più grandi costruttori per caso, soprattutto in due mondi diversi. Mondi tecnici ma anche geografici, poiché Surtees ha ottenuto anche il titolo nella prima edizione della Can-Am. Quale sarà stata l’abilità maggiore ci si domanda, oltre la lucidità che serviva ai tempi per chiudere le gare sotto la bandiera indenni, prima ancora che vincenti. Manico a parte il capire la tecnica è stato un elemento importante nella carriera di Surtees, prima motociclista, che ha condotto mezzi estremamente diversi tra loro sotto tanti punti di vista. Moto e auto di ogni cilindrata e frazionamento (dalla piccola monocilindrica 125 al V12 3.0 della F1) ruote scoperte o meno, pneumatici altrettanto vari come pure i regolamenti tecnici. Se aveva deciso di farsi una squadra con tanto di vetture a proprio nome, a fine carriera (dal 1970) era sia per questioni personali e magari di relazione, con alcuni “padroni” non sempre fedeli amici dei piloti, ma certo anche per conoscenza e passione verso il mezzo meccanico. In patria non gli hanno conferito a caso onorificenze come laurea in ingegneria e CBE (Commander of the Order of the British Empire). Vantava tanti legami anche in Italia John Surtees, poiché iridato sulla rossa 158 nel 1964 e con le MV Agusta (350 e 500) negli anni Cinquanta: roba da sogno per chiunque, specie nel Bel Paese che in quei momenti poteva sognare per davvero. Ringraziato dei servizi resi persino in Giappone, per come portò Honda alla prima vittoria in F1, a Monza in un GP Italia 1967 di cui qui sotto trovate un video commemorativo; dal quale non traspare però la combinazione tecnica alle spalle di quell’acerba RA300, nata molto pesante ma alleggerita quel tanto che bastò su indicazione di John, proprio una settimana prima di quella gara.
Non si vantava Surtees e nemmeno criticava pesantemente come certi suoi meno titolati colleghi del passato la gioventù moderna, anzi, più di una volta sollecitato a commentare qualche limite evidente della F1 attuale, rimarcava come fosse complicato e non facile correrci, prima di tutto, ancor più vincerci. Per sua bocca nemmeno facile udire parole contro certe scelte tecniche, palesemente opposte a quelle dei suoi tempi e allo spettacolo, quasi a rispettare anche troppo questi suoi successori di mezzo secolo dopo; mentre avrebbe potuto zittire molti e raccogliere consensi narrando episodi intrisi di fatiche per correre in pochi giorni su auto diverse in continenti diversi, vincendo, piuttosto che di meccanica motoristica e approcci all’aerodinamica fatti con le proprie mani. A dispetto delle origini, condivise con altri dei suoi tempi poi meno ben messi in pista e finanziariamente, alla fine, non gli mancavano altre attività, esterne alle sole corse, in ambito immobiliare e di commercio. Non si è però distanziato dai circuiti come fanno altri dopo aver smesso: kart e piccole formule per supportare i giovani o raccogliere beneficienza, quello contava per lui nel periodo recente. Per il suo omonimo team in F2 corse e vinse (1972) un altro asso tanto di manubrio quanto di volante, Mike Hailwood, mentre in F1 fece guidare la sua monoposto con il V8 Ford a parecchi italiani durante gli anni Settanta, tra i quali il monzese fratello minore di un coetaneo di John, che venti anni prima gli dava man forte sulle moto del conte Agusta e poi passò anch'egli al servizio del Drake: Ernesto Brambilla. Proprio il Tino oggi ricorda Surtees con semplici parole: “Tra i migliori compagni di squadra che si potessero desiderare. Una brava persona davvero, corretto soprattutto e che nonostante potesse vantare un ruolo da senatore tra i piloti, si poneva sempre in modo cordiale, disponibile verso quelli con cui lavorava e non avevano i suoi allori. Appassionato fino all’ultimo, perché pochi anni fa lo si poteva vedere salire ancora volentieri in sella a una delle sue quattro cilindri”. Ce ne sarebbero tante che John avrebbe potuto raccontare di vicende, anche come manager, di come un po’ per limiti economici e di salute, anche quella fase terminò e i suoi diritti FOCA passarono a un certo Frank Williams, che ne fece buon uso raddoppiando il proprio impegno. Chissà se chi le conosce tutte e bene scriverà un nuovo libro, oltre a quanto già disponibile, rivitalizzandone quantomeno l'immagine oggi non certo comune. A non riconoscerlo per questioni di notorietà, bastava dargli uno sguardo al pass FIA che portava al collo, per invidiarne la titolazione prima ancora di risalire a leggerne il nome: dove i più fortunati oggi hanno un qualche buon ruolo, magari sudato, oppure il regalo di nullafacente Guest su evento singolo (il cosiddetto spettatore VIP) lui aveva invece una semplice tacca di F1 World Champion, sul proprio permanente. Eppure anziché ricordare il numero esatto delle sue oltre 250 vittorie, ammetteva invece qualche fortuna capitata a dargli una mano, per esempio sempre a Monza quando riuscì a vincere uno dei suoi GP Nazioni (e conseguente titolo) pur dopo esser andato malamente sulla sabbia all’ultimo passaggio, in Parabolica.