Per inviarci segnalazioni, foto e video puoi contattarci su info@moto.it
“Siamo arrivati fino a qui non perché ci siamo improvvisati, ma perché abbiamo sempre seguito il cuore”. Poche parole e René Arnoux si presenta per quello che è: un appassionato di motori che ce l’ha fatta. Il tutto condito da una grigliata organizzata dal Ferrari Club Castenedolo, alla quale Arnoux non ha voluto mancare, dividendo piatti e posate di plastica, bevendo rigorosamente acqua: “Non ho mai bevuto alcolici, anche quando Enzo Ferrari mi voleva obbligare a bere lambrusco” dice ridendo. Da meccanico alle officine Conrero in Piemonte, al volante della Ferrari F.1 quando ha sfiorato il titolo mondiale 1983: “Mi brucia ancora: Piquet aveva una Brabham con benzina irregolare e nell’ultima gara se ne andò come se noi fossimo fermi, Prost era ritirato con una turbina rotta e io che non potei difendermi. Solo furbizia loro? No ci fu anche altro interno alla Ferrari…” ma non dice cosa. Preferisce tacere.
Ma si scioglie quando gli si ricorda quel duello pazzesco con Gilles Villeneuve a Digione, luglio 1979, entrato nella storia delle corse e pezzo unico inarrivabile 45 anni dopo: niente fu così prima e niente è stato così dopo. “Fu qualcosa di unico. Io avevo problemi di pescaggio alla pompa benzina, lui aveva le gomme quadrate per come frenava. Eravamo due zoppicanti che volevano il secondo posto. Ruotate, uscite di pista (in una ho rotto il supporto motore e non so come sono arrivato in fondo), ma era un duello tutto impostato in base al rispetto. Con un altro pilota non lo avrei fatto e Gilles non lo avrebbe fatto se non fossi stato io. Sapevamo fin dove arrivare, fino a quale limite spingersi oltre. Avevamo macchine più corte di quelle di oggi, bastava poco per toccarsi e finire in tribuna o al creatore direttamente. A fine gara mi fermai senza benzina, ero arrabbiato perché avevo perso il secondo posto e sarebbe stata doppietta per la Renault, alla prima vittoria in assoluto in F.1. Torno ai box e tutti applaudono, si complimentano, vado da Gilles, ridiamo come matti e di colpo abbiamo capito cosa avevamo fatto! Jabouille, vincitore, non mi ha mai perdonato di aver offuscato la sua prima vittoria, ma ormai è storia”.
Toccarsi, volare via e la morte dietro un angolo. “Sì, ho visto morire Gilles. L’ho visto in un prato, la sua macchina rotta e ho realizzato cosa fosse successo. Lui era così. In USA mi chiede come faccio una curva: gli dico non si fa in pieno. Lui mi dice che ci avrebbe provato. Arriviamo a fine sessione e vedo un rottame, lui che salta il guard rail poi vedo la macchina distrutta. Torno ai box, lo incontro e mi dice: hai ragione, non si fa la curva in pieno, ci ho provato ma non si può. Lui ed io eravamo simili. Lui arrivava da un paesino del Canada e aveva fatto mille lavori, io da un paesino vicino a Grenoble e avevo fatto mille lavori, dal meccanico al fattorino. Volevo correre, ma non pensavo arrivare mai in F.1. e’ stato un percorso logico, dopo una categoria, vinta, passavo a quella dopo. Dovevo trovare i soldi per correre e mangiare, perché poi devi anche mangiare a mezzogiorno, e così sono finito in F.1”.
E a te, in quanto a incidenti, è andata bene? “mi ricordo che in Olanda si ruppe tutto davanti. Andavo a oltre 300 orari, senza freni, sterzo, possibilità di difendermi. Sbatto contro le protezioni: nell’unico punto in cui misero delle gomme. Un metro di là o di qua e non la raccontavo. Mi fermo: ho l’asta della leva del cambio nel fianco destro, il volante storto contro la milza a sinistra, la scocca piegata contro il casco. Muovo le dita dei piedi per capire se non avessi rotto la schiena. Vedo che funziona, ma la benzina comincia a colare nell’abitacolo e io che non mi libero. Arrivano, mi tirano fuori e mi dicono: complimenti, hai preso le protezioni, sei stato bravo. Ma bravo che cosa? Ho avuto fortuna. Avrei voluto prendere un aereo e andare su in cielo a ringraziare Dio perché se era andata così è stato solo perché ha guardato giù e ci ha messo una mano sopra”. L’incidente, cosa successa spesso…”Con Ligier perdo una ruota, con Renault resto senza freni altre volte. Ma avevo sempre la sensazione di qualcuno là in alto che mi proteggeva e con le F.1 di ieri era il minimo avere questa fiducia. Ma la logica mi diceva che una F.1 è una macchina controllata in ogni particolare, quindi avevo la fiducia di correre sapendo che la macchina era in ordine. Anche se poi qualcosa si rompe sempre…”. E poi trovare il coraggio di risalire, spingere ancora e provare a superare il limite: “Quando sei al volante in corsa non puoi fare troppi ragionamenti. All’inizio magari te la fai sotto, poi o decidi di smettere o se vai avanti ci dai dentro. Eravamo così noi della nostra generazione”.
Poi arriva la Ferrari, in quel 1983 in cui hai sfiorato il titolo iridato…”Veramente un mese dopo la morte di Gilles, giugno 1982, mi chiama il commendator Ferrari: venga a pranzo da me, vorrei scambiare qualche chiacchiera. Mi presento da solo, senza avvocato, senza manager e mi immergo nel clima Ferrari, che era un mito davvero. Mi chiede se possiamo fare qualcosa insieme in futuro, gli dico che mi piacerebbe. Mi fa sedere a un tavolino, arriva un piatto di riso, mi offre del lambrusco ma io non bevo. Beva Arnoux, beva che è quello buono. Gli dico di no perché sono astemio e per le corse non va bene. Gli piace la mia risposta. Mi chiede se posso correre per lui, dico sì a occhi chiusi. Mi chiede quanto vuole? Faccia lei commendatore. Una stretta di mano e l’accordo è raggiunto. Poi mi chiede di Renault, del motore turbo e tante altre cose, era molto curioso di sapere le novità tecniche della concorrenza, conosceva bene la meccanica. Ci stringiamo la mano, mi dice che il contratto lo avrebbero fatto gli avvocati, dico che va bene e che non mi interessa oltre lo stipendio e il rimborso spese di viaggio. L’annuncio per Monza, vigilia del GP 1982. Gli dico che ho un debito morale con Larrousse, team manager Renault, non posso dirgli a settembre di cercarsi un altro pilota. Ferrari mi dice che va bene così e di avvisarlo. Avviso Larousse, mi ringrazia e discretamente cerca un pilota per sostituirmi senza far trapelare niente a nessuno, tantomeno a Prost che aveva la lingua lunga… Arriviamo a Monza, sabato pole position di Andretti con la Ferrari ex Pironi, perché nel frattempo Didier ha avuto un grave incidente. Io vinco la gara e la Gazzetta dello Sport il lunedì titola: tre piloti Ferrari sul podio, facendo incazzare la dirigenza Renault…”.
Hai parlato di contratti, che ne pensi di Hamilton alla Ferrari? “Penso che sia un errore. Perché Lewis ha 40 anni e un pilota è un atleta e come atleti l’età conta molto. Cali fisicamente e mentalmente, è un dato di fatto. I giovani vanno più forte, magari gli manca l’esperienza ma se non vai forte, l’esperienza non ti serve a niente dopo. Poi hai un Leclerc in squadra, sul quale hai puntato tutto, è giovane ed è veloce. Con Sainz avrebbe fatto una coppia forte e durevole. Così Hamilton fa un paio d’anni, se ne va e si ricomincia da capo. Se credi in Leclerc non puoi mettergli a fianco uno come Hamilton, vuol dire svilirlo o non avere fiducia nelle sue capacità e questo influisce molto. Ci pensate se Lewis dice che una cosa non va bene e Charles il contrario? A chi daranno retta? All’ultimo arrivato o al vecchio pilota? E allora perché prenderlo? Una situazione difficile senza dubbio che avrei evitato”.
Consigli allora? “Poco da dire, certe cose le sanno loro. Ma esperienza insegna che se dopo due anni non ottieni risultati, devi guardarti intorno e Leclerc per me è rimasto anche troppo a Maranello, ma lo capisco perché il fascino Ferrari è unico, ma la carriera è un’altra cosa”. Parlando di compagni di squadra, con chi hai condiviso al meglio? “Con Gilles Villeneuve c’era amicizia vera, anche se eravamo rivali. Il venerdì andavo a mangiare nel motor home Ferrari e il sabato veniva lui in quello Renault, alternavamo cucina italiana e francese. Giocavo coi figli, anzi vedere Jacques vincere il mondiale è stata una sorta di rivincita per Gilles e devo dire che Jacques è molto più simile al padre di quello che si pensi. Ma la persona migliore e grande pilota è stato senza dubbio Michele Alboreto. Io ero già in squadra e lui, pilota italiano, arrivò nel 1984 alla Ferrari. Temevo favoritismi, invece devo dire che Michele, la moglie e i figli, sono stati la cosa più bella che ricordo della mia carriera. E poi un amico: Piercarlo Ghinzani. Alla Ligier abbiamo patito le rotture del motore Alfa Romeo e il passaggio ai Megatron, un disastro. Con lui non ho perso il sorriso, un grande pilota e un grande manager, ottimi ricordi di persone speciali. Italiane, come ormai mi sento io”.
Ecco, Alfa Romeo, la grande incompiuta: “Ma cosa vuoi, erano 15 persone che volevano fare un motore meglio di Ferrari, gente che non aveva capito niente che i tempi erano cambiati e ci voleva altro, specialmente per battere la Ferrari in quel periodo. E infatti, un giro o due e il motore si rompeva di brutto. Avevo detto che non avevamo le basi per competere, presero la scusa per ritirare il programma prima che partisse il campionato e dovemmo prendere il Megatron, un ex BMW turbo, che era tutto tranne che resistente, si spaccava anche quello, aveva misure che nel telaio non andavano bene per niente”. E poi, 1989, arriva la decisione: “Dovevo cercare un volante vincente, ma c’erano solo Williams e McLaren in quel periodo e la Ferrari, ma era già storia chiusa. Mi sono guardato allo specchio e mi sono detto: vale la pena continuare ancora? Ho deciso a metà stagione di ritirarmi, ho avvisato la squadre e ho finito il campionato impegnandomi sempre al massimo, ma con la mente che diceva è finita, è finita”.
Cosa non ti piace della F.1 di oggi? “A volte vedo le gare, altre no, dipende dagli impegni. Spesso sono noiose, ma lo erano anche ai nostri tempi, quindi direi che non è cambiato niente. Quello che invece non sopporto e lo vieterei, è il cambiare colore del casco quasi ad ogni gara. Ai miei tempi il casco era il segnale di riconoscimento di un pilota, il mio era bianco, Alboreto giallo e blu, Prost bianco e blu, Senna giallo con le righe: riconoscevi subito il pilota, era la nostra bandiera, il nostro emblema. Oggi non si capisce più niente, svilito e anonimo, uno vale l’altro. Vieterei per legge il cambio del colore, così si torna alle bandiere di una volta e il pilota col suo casco è il simbolo riconosciuto. Se devi ricordare un Hamilton o un Verstappen, con quale casco lo ricordi? Senna invece lo ricordi bene, è lui col suo casco. Questo aspetto non mi piace ma non posso cambiarlo proprio per niente”.