Logan Sargeant via della Williams: ecco perché i piloti americani faticano in Formula 1

Logan Sargeant via della Williams: ecco perché i piloti americani faticano in Formula 1
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L'ultimo pilota con nazionalità americana a titolo mondiale è stato Mario Andretti; adesso anche Logan Sargeant dirà addio alla massima categoria. Perché è così complicato per gli americani costruirsi una carriera nel motorsport in F1?
28 agosto 2024

Il Gran Premio d’Olanda 1978 è l’ultima gara iridata vinta da un pilota americano, Mario Andretti. Il fato ha voluto che l’appuntamento olandese fosse anche l’ultimo di Logan Sargeant in Formula 1. Infatti, dopo l’incidente che ha distrutto la sua Williams nelle FP3, James Vowles ha deciso di interrompere prematuramente il contratto, rimpiazzando Sargeant ancor prima della fine della stagione. In attesa che arrivi Carlos Sainz l’anno prossimo, Franco Colapinto sarà il nuovo pilota del team inglese. Una domanda sorge spontanea, perché i piloti americani faticano così tanto in massima categoria? Forse abbiamo trovato una spiegazione, ed anche una soluzione.

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La risposta a questa domanda è abbastanza complessa e dipende da una miriade di fattori, ma le radici affondano nella storia degli Stati Uniti d’America e nell’evoluzione tecnologica degli sport motoristici, Formula 1 in primis. Facciamo un grande passo indietro, partendo dal fatto che in Europa, a differenza dell’America, le strade sterrate hanno iniziato a far parte della quotidianità della popolazione ancor prima che l’automobile fosse inventata. Sentiri e stradine in ciottoli sono stati infatti realizzati già nell’antica Roma, mentre in America le popolazioni indigene non sentivano la necessità di modificare il paesaggio naturale per viaggiare e conquistare nuovi territori.

Questa è dunque una diretta conseguenza di quando le vetture iniziarono a circolare liberamente sulle strade, che in Europa erano già pronte all’uso, mentre in America si dovette partire dalle basi. Questo si è riflettuto anche sulla nascita dei primi tracciati da corsa, con l’Europa che aveva già tutto a disposizione per edificare piste più articolate, come l’Autodromo Nazionale di Monza che è nato nel 1922, il terzo circuito permanertene al mondo, e nel 1927 quello del Nürburgring in Germania, utilizzate anche per fare dei test da parte dei principali costruttori di automobili. In America, invece, vennero realizzate piste con layout più semplici, ad ovale. Al termine della Seconda Guerra Mondiale, il motorsport iniziò la sua era d’oro con uno sviluppo che continua irrefrenabile ancora oggi giorno. Non solo Formula 1, ma anche altre categorie che attraevano piloti da tutto il mondo. Ad esempio, Juan Manuel Fangio, e molti altri sui colleghi, iniziarono nei rally per poi passare ad altre auto sportive prima di correre un Gran Premio. Mario Andretti, uno dei più grandi piloti americani, gareggiò prima nelle corse di Stock Car, poi in quelle a ruote scoperte ed infine nelle gare di durata. Solo in seguito ebbe il suo debutto a bordo di una monoposto di Formula 1.

A differenza delle correnti regole, prima era più facile ottenere un sedile, anche temporaneo, in Formula 1. Infatti, negli anni ’50 e 70’, non c’erano regole che imponevano un limite di vetture che un team doveva far correre, o su quanti piloti iscrivere nell’Entry List. Lotus, ad esempio, chiamava diversi piloti come Mario Andretti per il Gran Premio degli Stati Uniti, Alberto Larreta per l’Argentina, Pedro Rodriguez per il Messico o Gerhard Mitter per la Germania. I piloti ufficiali, Jim Clark e Graham Hill, potevano sfruttare questi GP che saltavano per provare altre categorie o gare iconiche, come la 24 Ore di Le Mans o la 500 Miglia di Indianapolis. Non a caso, questo è stato anche il periodo in cui l’America ha raggiunto i suoi massimi successi con in Formula 1 con Phil Hill e Mario Andretti che divennero campioni del mondo iridati, oppure Dan Gurney, Peter Revson e Richie Ginther che vinsero gare della massima categoria.

Ma con i nuovi regolamenti che hanno debuttato dagli anni ’80 in poi, la situazione è cambiata, con il motorsport che è diventato sempre più specializzato. Risale infatti al 1985 la regola della Formula 1 che impone ai team di iscrivere al massimo due piloti, eliminando definitivamente la possibilità di avere quelle che oggi chiamiamo “Wild Card”. Gli sviluppi delle monoposto, sia a livello tecnico e aerodinamico, hanno fatto aumentare esponenzialmente i costi, e questo ha portato i team a preferire piloti con una maggiore esperienza rispetto a dei giovani rookie. Ma a mettere in difficoltà i piloti americani è stata la Superlicenza e i pochi campionati a ruote scoperte che permettevano di collezionare punti necessari per arrivare in Formula 1. A differenza dell’Europa, gli States hanno avuto solamente le categorie CART, IRL, Champ Car e IndyCar. Inoltre, la maggior parte dei team del Circus hanno iniziato a creare delle vere e proprie Academy che, ancora oggi, formano i piloti che un giorno verranno chiamati in massima categoria. I giovani talenti venivano notati nei principali campionati europei, tra Regno Unito ed Italia, dove hanno sede quasi tutti i team di F1, e poi crescevano nei loro vivai. Giusto per fare esempi attuali, Charles Leclerc ha fatto parte della Scuderia Ferrari Driver Acadamy, George Russell dell’Academy Mercedes, Max Verstappen del programma Junior della Red Bull e, non a caso, il sostituto di Sargeant fino alla fine della stagione è un membro dell’Academy Williams, Franco Colapinto.

Trovarsi oltreoceano, rende dunque svantaggiati molti piloti americani che per essere notati dai grandi team devono trasferirsi per forza in Europa. Ma questo riguarda anche altri Stati, come il Giappone con Yuki Tsunoda che si è dovuto trasferire presto in Italia per crescere in AlphaTauri, Oscar Piastri e Daniel Ricciardo dall’Australia e Liam Lawson dalla Nuova Zelanda. Ovviamente, per questi giovani piloti e le loro famiglie non è una spesa piccola quella da affrontare per inseguire questo sogno. Motivo per cui solamente chi ha già una buona base economica riesce a rompere questo muro di cristallo. Logan Sargeant ci è riuscito grazie alla famiglia benestante che, insieme ad altri sponsor americani, hanno finanziato il suo viaggio fino al campionato di Formula 4 UAE, dove è arrivato secondo assoluto, nella Formula 4 Inglese (dove sono cresciuti anche George Russell, Lando Norris ed Alexander Albon), concluso in terza posizione nel 2017, per poi approdare in Formula 3, prima categoria a livello internazionale. Al primo anno in Formula 2, Logan ha vinto due gare ed è salito sul podio per ben due volte, chiudendo quarto in classifica, convincendo la Williams ad offrirgli un sedile.

Ma a dare la spinta in più al team britannico a firmare il contratto, è stato il grande budget messo a disposizione dai suoi sponsor americani. Ecco perché ha avuto la nomea di essere un “pilota a pagamento”, ma in realtà quanto dimostrato nelle categorie minori ha confermato che Sargeant è un pilota di talento. Il suo unico sbaglio è stato quello di affrettare la corsa verso la Formula 1. Una scelta dettata anche dalla paura di perdere l’offerta di quel sedile che attendeva fin da piccolo, un sogno che diventava realtà. Sicuramente non sarebbe stato il prossimo campione del mondo, ma il potenziale di crescita c’era tutto, oltre al fatto che la monoposto che ha guidato fino allo scorso weekend non era la migliore della griglia. Non dovrebbe sorprendere se poi continuerà la sua carriera in altri campionati raggiungendo anche grandi traguardi. A spingere James Vowles a non dargli ulteriori chance fino alla fine della stagione, inevitabilmente l’ultima in F1 dato l’ingaggio di Carlos Sainz per il prossimo anno, è stato l’ammontare dei danni riportati con l’incidente delle FP3 di Zandvoort, che ha completamente distrutto la vettura su cui il team aveva lavorato senza sosta nella pausa estiva per permettergli di testare gli aggiornamenti in pista. In un mondo in cui le squadre devono rispettare il budget cup, non è un segreto che vengano fuori i lati più “spietati” dalla Formula 1. Non performi come il tuo compagno di squadra? Va bene, ma sei a rischio. Mi fai perdere anche milioni di dollari? Anche no, quella è la porta.

Alessandro Martellotta

Per risolvere questo problema dei piloti americani che non riescono ad affermarsi in Formula 1 ci sarebbe una soluzione che potrebbe presto diventare realtà. Gli Stati Uniti hanno dimostrato un fortissimo interesse verso la massima categoria, con ben tre Gran Premi in un calendario di 24 gare iridate. Seguendo questa scia, ci vorrebbe, di conseguenza, anche un team americano che supporti il motorsport e i giovani talenti, proprio come avviene in Europa. È vero, la Haas è una squadra americana, ma la sua sede è principalmente a Maranello, così come i suoi giovani piloti che vengono dal vivaio della Ferrari; chiedere ad Oliver Bearman per averne la conferma dato che sarà lui, insieme ad Esteban Ocon, a formare la line-up del prossimo anno. Accettare la richiesta di Mario Andretti di costruire un team tutto suo in Formula 1, significherebbe maggiori opportunità per i piloti a stelle e strisce che vorrebbero rendere il loro sogno di correre un Gran Premio iridato realtà. Questo, insieme ad altri fattori, sbloccherebbe questo “muro di cristallo” che, almeno per momento, sembra essere destinato a rimanere tale e che non permetterà all’America di avere un proprio campione del mondo, almeno non in tempi brevi. Un paradosse se consideriamo i miliardi di dollari che stanno investendo per le gare di Miami, Austin e Las Vegas.

Alessandro Martellotta
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