La storia di Ercole Colombo, una vita passata da fotografo inviato di Formula 1

La storia di Ercole Colombo, una vita passata da fotografo inviato di Formula 1
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Compie oggi 80 anni Ercole Colombo, una vita passata a seguire la Formula 1 in giro per il mondo come fotografo. La sua intervista esclusiva
18 novembre 2024

Nel mondo della F.1 ci sono delle leggende, alcune conosciute da tutti quando si parla di piloti, campionissimi, altri meno quando si parla di team manager o presidenti di squadre famose. Nel circus iridato, però, ci sono delle leggende che hanno raccontato per anni le imprese altrui e senza rendersene conto, sono diventati essi stessi personaggi unici. È il caso del fotografo Ercole Colombo che compie 80 anni il 18 novembre.

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Una vita trascorsa a raccontare le corse da inviato della Stampa e Gazzetta dello Sport prima e poi come fotografo protagonista di scatti iconici, diventati simbolo della storia della F.1. Con oltre 700 GP sul campo, Colombo ha attraversato cinque decadi della F.1. Un mondo che è cambiato tantissimo mentre Ercole diventava un punto fermo di riferimento: “E meno male che non sono una statua – ci dice ridendo – la mia è una storia che comincia da bambino. Mio padre era un grande appassionato di motori. Abitava a Vedano al Lambro, perciò se cadeva dal letto entrava in autodromo direttamente, tanto per dirla tutta. Oltre a essere appassionato di motori, ero anche appassionato di fotografia. Probabilmente nel DNA me le ha trasmesse lui queste due passioni. So che mi ha portato in pista a Monza per il mio primo Gran Premio nel 1950. E poi gli anni successivi. E la cosa che mi ricordo allora che lui mi spiegava, guarda, questo è Fangio, questo è Farina, questi i grandi piloti che io da ragazzino sentivo nominare mentre ne parlavano a casa di questo o dell'altro e che sentivo poi alla radio. Avevamo ancora la radio a valvole di quelle che se non andava gli davi una randellata e ripartiva…”. Una passione che nel tempo si è rafforzata. Da bambino giocava a nascondino e ovviamente era il parco di Monza il teatro di questi gioco: “Però appena sentivamo un rumore correvamo dentro. Naturalmente conoscevamo tutti i buchi nelle reti per entrare e andavamo a vedere gratis chi stava girando, fosse macchina, moto, insomma qualsiasi cosa che facesse rumore per noi era motivo di attrazione”.

Gli inizi, diciamo così, professionali risalgono però ad alcuni anni dopo…

Ho una data, nel 1961 ero entrato nel gruppo dei barellieri che gestiva il Moto club di Vedano e vado a fare il barelliere. È stato un anno tragico dell'incidente, quello dell’uscita di pista di Von Trips e degli spettatori uccisi in tribuna. Per fortuna, ricordo che ero nella parte media della sopraelevata, per cui avevo la parabolica, oggi curva Alboreto, alle spalle. Non ci hanno chiesto di intervenire e sono rimasto lì, vedevo queste macchine che sfrecciavano a piena velocità praticamente sopra la testa. Ecco, dopodiché ho continuato. Naturalmente per frequentare i box, ho cominciato a far foto. Mi sono comprato poi una reflex e da lì è partita tutta un'altra storia. Credo ancora oggi di essere uno di quelli che ha visto più Gran Premi d'Italia a Monza, ho visto anche quello dell'ottanta a Imola a dir la verità. Ricordo solo che ho saltato il 2020 perché c'era il Covid. Alla mia età non potevo permettermi questo rischio, visto che avevo avuto anche un problema di salute”.

Tu hai rappresentato un'epoca in cui oltre che fare il fotografo si facevano anche gli articoli, perché scrivevi: come facevi a conciliare le due cose, stare in pista a fare le foto, poi raccontare la gara perché eri inviato per La Stampa, Autosprint e altre grosse testate nazionali?

“ Ho scritto dal 74 per La Stampa, collaboravo con foto e anche articoli. Con la Gazzetta e poi con Autosprint, ho cominciato con la F.2, facevo tutto io. Perciò oltre alla F.1 e le altre corse, seguivo altri campionati. Una volta non c'era, diciamo nella gara lo storico o il contagiri, allora per fare un commento che doveva essere un più preciso, utilizzavo un registratore uno dei primi portatili, quando passavano davanti alla curva, intanto che scattavo, io dicevo il nome del pilota in modo da avere il contagiri e alla fine e sapere in che posizione era questo pilota o quell'altro, tutte piccole cose. Ormai invece ti danno tutto a fine gara”.

Però era un tipo di lavoro in cui dovevi correre in sala stampa, trovare un telefono perché ce n'era solo uno, dettare il pezzo e nel frattempo sviluppare le foto e mandare le foto al giornale, che era molto complicato…

Ricordo la gara di apertura della F.1 a Truxton. La sala stampa sarà stata grande tre metri per tre, c'erano due telefoni, mi attaccavo io e dettavo i pezzi a braccio. Coprivo Gazzetta dello Sport, Corriere, la Stampa, Autosprint. Il telefono restava occupato per due ore. Perché dovete sapere che, dunque, oltre a fare il commento, la redazione ci diceva fammi 80 righe, poi fammi 40 righe di interviste, tutto questo doveva essere fatto a braccio, ossia senza scrivere niente e tu di là dettavi a un dimafonista al giornale dovendo dettare anche la punteggiatura e lettera per lettera il nome del pilota, della macchina, del motore, che era la parte più difficile e lunga del servizio a dire il vero”

Ad esempio, primo Stewart dovevi dire Savona, Torino Empoli, e via così compresa la parentesi, lo spazio… Immagino con le gare con tanti iscritti che lavoraccio…

“In una gara di F.2 in Germania c'erano ben 60 e passi scritti e le prove erano divise in numeri pari, numeri dispari, mattina e pomeriggio, in pratica in pista tutto il giorno e poi a dettare dopo. E poi la rivoluzione di mandare le foto a colori. Sviluppavamo anche quelle, perché il colore si sviluppa velocemente, 8 minuti come il bianco e nero. Ecco, lì ci ha fregato onestamente la Nikon che ha fatto un piccolo scanner che si poteva portare in giro e da lì è partita un'altra gara. Infatti in un certo senso mi ha obbligato ad abbandonare lo scrivere gli articoli. Perché è finito il Gran Premio dovevi sviluppare i rullini, ma non potevi svilupparli tutto perché la maggior parte erano diapositive. Dovevi andare in giro sulla spalla una macchina con la diapositiva e le altre con il bianco e nero o il colore e capire, quando vedevi una certa scena, che quella lì era una cosa importante per la giornata, cambiare la macchina e farla in modo da poterla sviluppare e mandare quella immagine al giornale. Finito il Gran Premio ne partiva un altro, che era la gara tra tutti noi fotografi e chi mandava prima le foto alle redazioni”.

Dopodiché siamo arrivati all'era digitale, hai smesso di scrivere, perché fare il fotografo e scrivere sono diventate due cose completamente diverse. E lì la tecnologia ha dato una grossa mano.

“Sì, è un'evoluzione continua, se vogliamo. Quando ci penso è un po’ una follia. Pensate che andavo sugli aerei, portandomi dietro tutto, oltre a portare tutte le macchine fotografiche e teleobiettivi. Per fortuna avevamo dei colleghi giornalisti che mi aiutavano, il grande Mario Poltronieri. L'ingegner Benzing: Ciao dai a me il teleobiettivo da 500 millimetri, tu prendi quello e via così, distribuivo il materiale fra i colleghi in modo da imbarcare tutto altrimenti il rischio era rompere macchine o obiettivi o perderli perché nella stiva li rubavano. Non parliamo dei materiali per sviluppare le pellicole. Salivo in aereo con una borsetta con dentro quattro flaconi con gli acidi per sviluppare il bianco e nero: adesso se porti l'acqua minerale ti sparano! Poi finalmente è arrivato il digitale, sono stato credo il primo a comprare la prima macchina fotografica, proprio perché almeno ho eliminato lo sviluppo e ho eliminato il portare in giro per il mondo le boccettine degli acidi. Era un investimento molto costoso, pensate che all’epoca il corpo macchina della prima digitale costava 27.500.000 lire, il primo Apple col quale ho cominciato a lavorare costava 13.500.000 lire, naturalmente tutte attrezzature che adesso un telefonino fa foto 10 volte più grandi e costa mille volte meno”

Non solo fotografie con un archivio immenso, comprato da Motorsportimages, ma anche una collezione di caschi unica, un vero museo del motorsport…

È un discorso d'amicizia, oltre 750 GP di F.1, 200 gare di F.2, Olimpiadi e 12 anni coppa del mondo di sci, lasciando perdere Le Mans e Daytona, per esempio. Un anno a Rio, io sono stato quasi un mese a fare i test a gennaio. In quel tempo si stava fuori coi piloti fra test, preparazione e poi la gara, si creavano rapporti di amicizia e per caso da un casco ne arriva un altro e via così. Mi ricordo che mandare le foto ai giornali in quel periodo, dovevi andare in aeroporto, pregare un passeggero molto gentile che non conoscevamo e chiedere se ci portava a casa questo sacchetto con dentro i rulli. E poi avvisare il giornale che mandava lì il suo autista in aeroporto col cartello col nome del passeggero e ritirare i rullini. Più di una volta è successo che chi portava al rullo è uscito da Malpensa e non si è ricordato che lì c'era a ritirare il fattorino del giornale o non lo ha visto. Una volta il fattorino ha dovuto inseguire il passeggero fino a oltre Treviso per recuperare le foto dei test in Brasile…

Era uno sport nello sport anche quello, trovare il passeggero o il comandante dell’aereo che prendesse in carico le foto, oggi è impensabile…

“Mi ricordo l'ultima volta, ero in Sudafrica. L'ultimo passeggero le ha prese perché naturalmente andando avanti c'era qualcuno che aveva approfittato e quindi mostro i sacchetti con dentro le cose che si potevano vedere e dirgli: sono un giornalista, sono rullini per la Gazzetta dello Sport…”.

Adesso che la leggenda della F.1 compie 80 anni, qualche consiglio ai giovani?
“Difficile rifare il percorso fatto da me solo perché sono cambiati i tempi. Ai fotografi aspiranti tali, consiglio di non scattare a vanvera, concentrarsi bene su un soggetto, fare sacrifici e crederci, ma soprattutto mettere la passione al primo posto, senza non si va da nessuna parte e passione vuol dire sacrifici, sono stato chiaro?”

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