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Nel 1968 la Formula 1 fu attraversata da un’ondata di shock per la morte di Jim Clark, due volte campione del mondo amatissimo dai fan e decisamente rispettato dai rivali. La scomparsa di Clark ebbe un’eco simile a quello della morte di Ayrton Senna, 26 anni più tardi: Clark, in un certo senso, fu il Senna della generazione post-bellica, la star della F1 che perde la vita prematuramente, sconvolgendo sia gli addetti ai lavori che gli appassionati.
La corsa di Jim Clark si interruppe per sempre il 7 aprile del 1968, durante una gara di Formula 2 ad Hockenheim: la vettura del pilota scozzese fu completamente dilaniata dall’impatto con un albero. Non ci furono testimoni dell’incidente, a parte un commissario di pista locale, che raccontò come Clark avesse cercato disperatamente di riguadagnare il controllo della vettura. Troppo tardi: Clark uscì di pista a 250 km/h. L’urto fu devastante: lo scozzese si ruppe il collo, e morì sul colpo.
Un commissario di pista locale raccontò come Clark avesse cercato disperatamente di riguadagnare il controllo della vettura. Troppo tardi
La notizia, seppur con la lentezza di quei tempi, si diffuse a macchia: «Il motorsport morì quasi di crepacuore» scrisse Eric Dymock, il biografo di Clark. Impossibile pensare alla responsabilità del pilota: Clark, sempre pulito nella guida, non avrebbe mai potuto commettere un errore del genere al netto di problemi tecnici. Il motivo dell’incidente è ancora oggi un mistero: con tutta probabilità, a beffare Clark fu una foratura lenta, che portò lo pneumatico a rotolare via all’entrata della curva.
Lo sgomento fu grande, non solo per i fan, ma anche per i piloti suoi contemporanei: Clark possedeva una maestria alla guida in grado di farlo sembrare invulnerabile. «Se è successo a lui, può accadere a tutti», fu l’opinione comune. Clark era in grado di accarezzare quelle monoposto pericolosissime, riuscendo ad estrarne il massimo senza mai superare il limite. Una dote fondamentale, quando uscire di pista significava molto spesso impattare contro protezioni sommarie o, ancora peggio, alberi.
Un esempio della sua maestria alla guida? Nel GP di Gran Bretagna del 1965, l’olio motore della sua Lotus cominciò a perdere pressione; Clark, al comando della gara con un quarto di giri ancora da disputare, decise di spegnere il motore in curva e ad affrontare il cambio di direzione per inerzia, per poi riaccendere il propulsore in rettilineo. «Era un uomo speciale, unico nel suo genere. Non ce ne sono stati altri come lui» ha detto Jackie Stewart.
Clark, così sicuro di sé e preciso alla guida, nel privato era invece una persona estremamente indecisa: aveva dubbi persino su cosa ordinare al ristorante. Lo scozzese, timido, con il vizio di mangiarsi compulsivamente le unghie, non amava la fama: l’unica cosa che gli interessava veramente era correre. Detestava essere al centro dell’attenzione e si sentiva colpevole per aver scelto di fare il pilota nonostante l’opposizione della sua famiglia. Questa dicotomia tra la sua personalità fuori dall’abitacolo e la determinazione sovrumana in pista affascinarono il pubblico: Clark nel 1965 apparve addirittura sulla copertina di Time, che lo definì «The quickest man on wheels».
Niente male per James Clark Junior, nato nel 1936 da una famiglia di agricoltori e orgoglioso delle sue origini. La prima iscrizione sulla sua lapide, a Chirnside, non racconta dei suoi successi in Formula 1, ma di quella che lui considerava la sua essenza: farmer, agricoltore, si legge. Clark, cresciuto in Scozia, fece il suo debutto nel mondo delle corse relativamente tardi: iniziò ad utilizzare la sua macchina, una Sunbeam Talbot, per partecipare a competizioni locali solo nel 1956, a 20 anni.
L’ascesa, però, fu velocissima: nel 1958, al volante di una Lotus Elite a Brands Hatch, Clark attirò l’attenzione del fondatore della Lotus, Colin Chapman, che lo invitò a correre nella Lotus Formula Junior. I risultati arrivarono subito, e Clark ottenne la promozione in Formula 1 nel 1960: l’esordio fu a Zandvoort. Nel GP del Belgio 1962 arrivò la prima vittoria, e nel 1963 il titolo mondiale. Quella stagione Clark vinse sette delle dieci gare disputate e ottenne l’iride a Monza. Due anni dopo, nel 1965, il bis: Clark si impose sulla concorrenza in sei delle nove corse cui partecipò, una in meno dei concorrenti. Clark, infatti, saltò il GP di Monaco per correre – e vincere – la 500 Miglia di Indianapolis. Lo scozzese rimane l’unico pilota della storia ad essersi aggiudicato il mondiale e la classica statunitense nello stesso anno.
Non è l’unico record colto da Clark nella sua carriera: lo scozzese, tagliando il traguardo per primo nel Gran Premio del Sudafrica del 1968, superò Juan Manuel Fangio nella classifica dei piloti più vincenti all’epoca. Clark ottenne anche il primato per il maggior numero di successi in una sola stagione, sette. Se il primo record fu battuto da Jackie Stewart nel 1973, il secondo resistette per 25 anni: ad infrangerlo fu Senna, il cui destino si sarebbe poi tristemente accomunato con quello di Clark. Anche a cinquant’anni dalla morte, Clark rimane uno dei più grandi della storia della F1: in termini di percentuale tra corse disputate e numero di pole position, è secondo solo a Fangio; per quanto riguarda le vittorie, è terzo, dietro ad Ascari e Schumacher.
La prima iscrizione sulla sua lapide è farmer, agricoltore
Clark aveva già avuto due incontri ravvicinati con la morte: naturale, in un’epoca nella quale commettere un errore costava spesso carissimo. Il 19 giugno del 1960 in Belgio lo scozzese evitò per un soffio il corpo martoriato di Chris Bristow, decapitato da un filo spinato dopo aver perso il controllo della sua Cooper. La Lotus di Clark, imbrattata di sangue, giunse al traguardo in una giornata maledetta, una delle peggiori della storia della F1: oltre a Bristow, morì anche Alan Stacey, colpito al volto da un uccello.
Un’altra tragedia toccò Clark da vicino: il 10 settembre del 1961, nel corso del GP di Monza, Clark fu senza colpa coinvolto in una collisione con Wolfgang von Trips: la Ferrari del tedesco si staccò da terra e si librò verso gli spalti, uccidendo 14 spettatori e lo stesso von Trips, sbalzato fuori dalla monoposto. Consumato dai sensi di colpa, Clark pensò di ritirarsi, ma alla fine scelse di continuare. Non poteva sapere che, di lì a sette anni, il suo incidente mortale avrebbe indotto i piloti in lizza alle stesse sue riflessioni.
Tra questi, il suo connazionale, Jackie Stewart, che lo considerava il suo mentore. «Jim Clark fu il miglior pilota della mia epoca – scrisse Stewart sul Guardian nel 2007 -. Avevamo la stessa altezza e la stessa corporatura, lo stesso approccio misurato alla guida e lo stesso orgoglio nell’essere scozzesi. Per altri versi, però, eravamo diversi: Jimmy era taciturno, mentre io difficilmente rimanevo a corto di parole».
Nonostante le differenze, i due svilupparono un legame fortissimo; la morte di Clark fu così uno shock impressionante per Stewart. «Ero completamente sconvolto. Jimmy Clark, l’uomo che volevo fosse il padrino del mio secondogenito, Mark, se n’era andato per sempre. Le settimane successive furono difficilissime: presi seriamente in considerazione l’idea di ritirarmi. Mi chiesi che cosa mi avrebbe detto il mio amico, e pensai che mi avrebbe consigliato di tornare in pista a dare il mio meglio; così feci».
Fu proprio la morte di Clark ad indurre Stewart ad iniziare una strenua battaglia per il miglioramento della sicurezza in pista. Purtroppo la scomparsa dello scozzese fu solo l’inizio di una successione di incidenti fatali. Il 1968, infatti, fu un susseguirsi di lutti: il 7 maggio Mike Spence morì durante le prove libere in vista della 500 Miglia di Indianapolis; l’8 giugno Lodovico Scarfiotti, l’ultimo pilota italiano a vincere a Monza, per giunta su una Ferrari, perse la vita in una gara di salita al volante di una Porsche. Il 7 luglio fu la volta di Jo Schlesser: morì carbonizzato durante il GP di Francia.
«Ero completamente sconvolto. Jimmy Clark, l’uomo che volevo fosse il padrino del mio secondogenito Mark, se n’era andato per sempre»
Il 4 agosto del 1968 sembrava all’apparenza un altro giorno maledetto: si correva alla Nordschleife del Nürburgring, l’Inferno Verde del motorsport. Una sfida titanica di per sé, esacerbata dal meteo: pioggia torrenziale e nebbia riducevano considerevolmente la visibilità. Ad uscire vincitore da questa bolgia fu Stewart, autore di una delle prestazioni migliori della storia della F1. Scattato dalla terza posizione, lo scozzese superò la Ferrari di Chris Amon prima e la Lotus di Graham Hill poi, beffandolo in rettilineo. Dopo due ore e 19 minuti, Stewart tagliò il traguardo con quattro minuti di vantaggio su Hill.
Di quel giorno, però, non si ricorda solo la straordinaria vittoria di Stewart: l’americano Dan Gurney entrò nella storia come primo pilota in F1 a correre con un casco integrale. Assistendo ad una corsa motociclistica a Los Angeles l’anno precedente, Gurney si era reso conto che un casco che estendesse la protezione fino al mento, coprendo l’intero viso, come quello usato dai centauri in lizza in quella gara, fosse ideale anche per lui. Lo provò così alla 500 Miglia di Indianapolis del 1968 prima e alla Nordschleife poi. Non tutti furono entusiasti di questa novità – alcuni piloti lo ritenevano claustrofobico – ma il casco integrale prese presto piede. Fu il primo passo verso il miglioramento della sicurezza auspicato da Stewart, battutosi strenuamente per l’installazione delle barriere a protezione dei circuiti e per la presenza di personale medico qualificato che potesse offrire assistenza immediata in caso di incidenti gravi.
Ad imporsi alla fine della stagione 1968 fu Graham Hill: il pilota britannico, dopo la morte di Clark, si ritrovò ad essere il numero uno di un team, la Lotus, provato non solo dalla scomparsa dello scozzese, ma anche da quella di Spence ad Indianapolis. Un compito arduo, che Hill portò brillantemente a termine, come amava ricordare Chapman. Hill seppe estrarre il massimo da una vettura fragile e ottenne tre successi decisivi, in Spagna, a Monaco e in Messico, fondamentali per centrare il secondo e ultimo titolo mondiale della sua carriera in F1.
Fu proprio la Lotus, peraltro, ad introdurre per la prima volta le ali in Formula 1, in quel fatidico 1968. Ad avere l’intuizione geniale fu il vulcanico patron della scuderia inglese, Colin Chapman: Clark nel 1967 aveva guidato una Indycar dotata di piccole ali, e riportò la notizia a Chapman, il quale decise di provarle sulla 49. Il primo tentativo a colpo d’occhio risultava abbastanza bizzarro: le ali, sorrette da montanti finissimi, erano poste molto in alto, per raccogliere aria pulita ed essere più efficienti. I montanti, però, non erano sufficientemente forti, e le ali avevano la pericolosissima tendenza a rompersi. A questa versione, ben presto bandita dalla federazione, ne fece seguito una posta più vicina al telaio. L’aerodinamica delle monoposto di F1 diventò successivamente sempre più complessa, fino alle odierne vetture, dotate di una miriade di appendici. Ma questa è un’altra storia.