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Pazzo scatenato, rissoso, donnaiolo. Fumatore incallito. Di tutto e di più, ma non si può negare che la vita, breve, di James Simon Wallis Hunt non sia stata degna di una trama cinematografica. E infatti, dopo la pellicola Rush che celebra quell'incredibile stagione 1976 in cui Hunt vinse il mondiale contro Lauda, la finzione scenica ha preso il sopravvento sulla realtà e alcuni aspetti della sua vita restano impressi per quanto visto sulla pellicola. Che con la vera stagione di corse, e la sua storia, ha poco a che fare.
Diciamo che l'iperbole di quel duello passato alla storia è servito per riscoprire un pilota fuori dai generi. Di uno che amava la vita, ha scoperto di avere un talento e lo ha sfruttato al massimo, salvo poi gettare tutto alle ortiche dopo la conquista del mondiale. Quasi svuotato dall'aver ottenuto il risultato voluto o forse semplicemente perché alla ricerca di altro per sentirsi vivo. Al punto che ad appena 45 anni, per arresto cardiaco, ci lasciò quel 15 giugno del 1993. E c'è da dire che non fu una fine inaspettata. In pochi rimasero sorpresi, quasi che parlando di Hunt si aspettava la parola fine in un modo o nell'altro. Sbagliando forse, ma lui era così.
Vederlo correre era uno spettacolo. La testa piegata di lato con quel casco nero e la bavaglietta antincendio rossa, di moda in quegli anni, la manualità nel domare la sua McLaren nell'anno del titolo
Pochi limiti in pista, meno nella vita. Tutto quello che meritava essere fatto lo faceva. Punto. Senza calcoli o fronzoli. Vederlo correre era uno spettacolo. La testa piegata di lato con quel casco nero e la bavaglietta antincendio rossa, di moda in quegli anni, la manualità nel domare la sua McLaren nell'anno del titolo, ma prima ancora vederlo guidare la Hesketh bianca coi colori della bandiera britannica, era uno spettacolo. Era il periodo, quello, in cui mettendosi in curva parabolica, a Monza, sulla tribunetta leggermente rialzata dal terrapieno, potevi vedere i piloti in azione nell'abitacolo. Vederli mentre staccavano la mano dal volante a cercare il cambio, a guardare negli specchietti e poi ancora salire di marcia mentre uscivano e remavano in controsterzo. Con una mano sul cambio e l'altra sul volante nella direzione opposta alla curva. Era una guida fisica, dura, da macho. Come erano i piloti dell'epoca.
Ecco, di Hunt rimane impressa la corsa del 1976, quando le McLaren furono relegate in fondo allo schieramento mentre Lauda faceva il clamoroso rientro in gara dopo l'incidente in Germania. Fu una apoteosi del tifo. In tribuna o nel prato a beccarsi la pioggia del mattino, poi la gara col sole e il caldo che faceva evaporare l'acqua dall'asfalto e lui che dal fondo risaliva, mentre Lauda teneva botta dopo un avvio lento e timoroso. Era un'altra F.1, dove si viveva e moriva nello spazio di un attimo, per cui non c'era tempo per perdersi in noiose congetture.
Era un'altra F.1, dove si viveva e moriva nello spazio di un attimo, per cui non c'era tempo per perdersi in noiose congetture
Gli inizi di carriera sono stati raccontati abbastanza bene nel film Rush, con Lord Hesketh e la sua megalomania nel fare un team di F.1 con quattro soldi. A quel tempo il motore era il V8 Cosworth più o meno uguale per tutti, il cambio Hewland 5 marce. Il resto ce lo metteva la fantasia del progettista e l'abilità del pilota. E qui nacque anche la leggenda di un altro grande dimenticato da molti: Harvey Postlethwaite, il tecnico assunto poi dalla Ferrari e chiamato Postalmarket dai meccanici che faticavano a pronunciare il suo nome. Con la Hesketh vinse il GP d'Olanda del 1975, nel 76 rimase a piedi e finì alla McLaren che stava trattando con Peterson dopo che Fittipaldi se ne era andato alla Copersucar, la monoposto del fratello Wilson nata coi soldi del governo brasiliano. Una serie di coincidenze incredibili che ne fecero un caso forse unico nel mondiale.
Come unica fu che l'unica volta che Hunt finì in testa al mondiale era proprio in occasione dell'ultima gara di campionato. Come accadde a Vettel nel 2010 che non aveva mai visto la testa del mondiale fino a quel punto. James Hunt era alto, 1,85 metri, faticava a entrare nell'abitacolo, eppure ci dava dentro. Tanto che dalle formule minori si era portato il nomignolo di Hunt the shunt, Hunt lo schianto per via dei tanti incidenti cui era protagonista. Nel 1979, con la Wolf lasciata libera da Scheckter (passato alla Ferrari) sperava di ripetere i successi del passato, come quello del debutto della squadra nel 1978 (sempre complice Harvey "Postalmarket") che fece vincere al debutto la vettura. Invece no. Era bella, nera, elegante, ma non andava neanche a spingerla.
A 31 anni James decise di smettere, passò alla BBC a fare il telecronista, ed era anche bravo, capiva al volo le situazioni. Ogni tanto veniva in pista nei primi anni 90, lo vedevi mezzo trasandato, quasi incurante di quello che lo circondava. Lo sguardo assente, ma sempre preciso nelle cronache. Fino al decesso, avvenuto proprio nel 1993 dopo anni e anni a fare il cronista, un mestiere che non aveva mai immaginato di fare. Ma i soldi guadagnati, tanti, finirono chissà dove e come. James ha lasciato una parte della sua eredità agonistica al figlio David, che qualche anno fa si è cimentato in pista e del padre ha conservato la tendenza a distruggere auto (chiedere a Maserati che deve avere qualche rottame sparso per il mondo...) ma nulla più.
Di Hunt the shunt, figlio di una famiglia povera, con sei figli all'attivo e poche prospettive nella vita, resta il ricordo di un grande pilota che avrebbe potuto dare di più
Di Hunt the shunt, figlio di una famiglia povera, con sei figli all'attivo e poche prospettive nella vita, resta il ricordo di un grande pilota che avrebbe potuto dare di più ma che cominciò la discesa nel momento in cui toccò la vetta iridata. Con momenti bui come Monza 78, quando fu il primo ad accusare Patrese per la carambola al via che costò la vita a Ronnie Peterson e il ferimento di Vittorio Brambilla e solo dopo, molto dopo, si vide che fu proprio Hunt a provocare, involontariamente, la collisione multipla. Chissà, magari oggi i due staranno ancora discutendo di quella partenza maledetta da qualche parte, chiedendosi se, in fondo, ne valesse la pena giocarsi la vita così. James di sicuro risponderebbe di sì. In fondo era fatto così.