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Ha 78 anni, Sir Jackie, uomo scozzese minuto, abbigliato con i tipici pantaloni e dallo sguardo un po’ accigliato sotto quel cappello da cui non si separa facilmente, in pubblico. Quando ci parla, durante la presentazione dei nuovi spot Heineken per la F1 qui a Monza, uno dei quali lo vede protagonista non certo solo riciclato con immagini d’epoca, è preciso, lucido molto “sul pezzo”.
Il pezzo in oggetto sarebbe quello di non bere quando si guida, infatti lui tiene in mano la birra solo in questo incontro, dove poi non deve salire in auto. Contrariamente alla scena finale dello spot, che ha sottofondo Heroes cantata da Nicole Atkins, dove il ragazzo del 1939 sale su una prestante Jaguar e a nostra domanda “L’hai guidata davvero tu in tutte le inquadrature, aprendo a fondo il gas magari?” risponde affermativamente, senza esitare.
Ci tiene molto alla sicurezza Stewart, perché ha smesso di fare il conto di quanti amici perdeva nelle corse degli anni Sessanta e Settanta quando sono diventati troppi. Apprezza quindi la F1 di oggi, al contrario di suoi colleghi, pensando che valga ancora molto. Stuzzicato sull’argomento passione e ruolo dei piloti moderni nell’alimentarla, non si fa grande dei suoi tempi, anzi, difende quelli odierni.
Quali sono i due ricordi, più bello e meno bello, della tua carriera di pilota e team manager qui a Monza, nel Tempio della Velocità?
“Quelli davvero belli sono almeno due e sono tra i più belli in assoluto di tutta la mia carriera. Nel 1965 ho vinto qui il mio primo GP, fantastico. Poi anche nel 1969, altra vittoria intensissima, che per me voleva dire essere campione del mondo di F1, una gioia grandissima. Qui a Monza è fantastico averla vissuta per la prima volta, ho battuto Jochen Rindt sul filo del rasoio segnando, ad altissime velocità, il distacco minore mai registrato in arrivo per la F1 ai tempi: otto millesimi di secondo, che mi sono valsi il titolo”.
“Purtroppo Monza per me ha segnato alti e bassi – prosegue Stewart - non posso non ricordare amaramente i drammi per gli incidenti e chi qui è mancato, mentre correvamo. In particolare l’anno 1970, quando morì proprio Jochen (unico iridato postumo della F1, campione pur essendo deceduto durante la stagione). Era un amico caro, sono tutt’ora in contatto con sua moglie”.
Già, moglie, come la sua Helen, che ancor oggi non si lamenta ma fa educatamente capire come sia abituata ad aspettarlo sin tardi, perché lui la fa attendere sempre quando è in pubblico, con molti che lo vogliono vedere da vicino e fotografare. Un mito vivente della F1 che da lungo tempo si batte per la sicurezza, sapendo davvero cosa vuol dire correre con il rischio di morire e che oggi volentieri appoggia l’intelligente campagna del nuovo sponsor birraio della F1.