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Come al solito quando il circo iridato sbarca in una nazione dove il regime politico non è certo democratico, si levano le proteste secondo cui non si dovrebbe dare spazio con manifestazioni di questo livello. Prima del GP di Baku Amnesty International ha diffuso un dossier con elementi indiscutibili della situazione locale, con nomi e cognomi di arrestati. Al proposito Bernie Ecclestone se ne è uscito con una freddura delle sue: “Diritti umani? Cosa sono?” e per lui la faccenda è chiusa. C’è che la F.1 è rimasta l’unica vetrina internazionale a livello sportivo, visto che le olimpiadi e i mondiali di calcio si svolgono ogni quattro anni e per un periodo limitato di tempo. Per cui investire sulla F.1 consente di avere una risonanza mondiale anno per anno. E questo lo hanno capito anche a Baku proponendo la loro nazione come punto di incontro fra Asia e Europa, tanto che la dicitura del GP è abbastanza comica: GP d’Europa, come se Baku fosse da questa parte dell’occidente.
C’è dittatura e controllo degli avversari politici, ma alla fine i soldi li devono spendere e come dicevano i latini, pecunia non olet, i soldi non puzzano. Mai, anche due mila anni dopo
Ma tecnicamente il nome era l’unico disponibile per la 21.gara del mondiale e quindi non deve stupire. Quello che invece molti dimenticano è che la F.1 spesso è stata l’anticamera del disgelo politico in molti paesi. Nel 1986 fu il GP d’Ungheria a far presagire che sarebbe cambiato qualcosa a livello internazionale, infatti tre anni dopo cadde il muro di Berlino con le conseguenze che conosciamo. La F.1 poi è sbarcata nei paesi asiatici e arabi. Nel 1999 in Malesia, altro regime che non si può definire democratico, eppure oggi gli scambi commerciali con la Malesia sono al massimo, senza dimenticare gli investimenti di Petronas in F.1 e nel centro ricerche di Villa Stellone alle porte di Torino. Il Barhain nel 2004 fu la prima a ospitare una gara nella regione, seguita cinque anni dopo da Abu Dhabi, ma anche Qatar e Dubai hanno avvenimenti internazionali. In Qatar oltre alla MotoGP ci saranno i prossimi mondiali di calcio, e le polemiche sui morti nei cantieri, sul regime regnante e altro ancora si sono sprecate, quindi non è solo la F.1 al centro delle polemiche.
La F.1 è rimasta l’unica vetrina internazionale a livello sportivo, visto che le olimpiadi e i mondiali di calcio si svolgono ogni quattro anni e per un periodo limitato di tempo.
Sempre nel 2004 fu la volta della Cina col GP a Shangai e alzi la mano chi parla di democrazia in Cina, oppure la prima volta della Corea e dell’India, con investimenti statali di altissimo livello. E come dimenticare la Russia col GP a Sochi, vetrina di Putin a tutti gli effetti e anche qui non si può parlare di democrazia in senso lato. E negli USA? Dopo Indianapolis si è finiti ad Austin, Texas, lo stato con la più alta percentuale di condanne a morte negli Stati Uniti, violazione dei diritti umani che la stessa Chiesa ha condannato all’ONU difendendo i valori della vita. La F.1 è un biglietto da visita unico per frequenza, ascolti televisivi e opportunità commerciali, questo lo hanno capito le nazioni in via di sviluppo, perché puoi avere tutti i regimi che vuoi, ma alla fine chi ha i soldi deve spenderli e guardando per le strade di Baku fra Audi, Mercedes e BMW (in dotazione alla polizia come se fossero utilitarie) lusso nelle boutique e prezzi elevati (ma la benzina costa 62 centesimi al litro, il gasolio 48…) la F.1 diventa opportunità per chi deve vendere e per chi deve comprare.
E in questo senso vanno spiegati gli investimenti di un tracciato cittadino (costava forse meno farne uno permanente ma in città, compreso il controsenso di un imbuto vicino al castello, rende meglio in TV per i turisti che attira) sui mezzi a disposizione e che solo un regime può garantire. Per cui, ribadendo un concetto già espresso: c’è dittatura e controllo degli avversari politici, ma alla fine i soldi li devono spendere e come dicevano i latini, pecunia non olet, i soldi non puzzano. Mai, anche due mila anni dopo.