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Quando si parla di Roland Ratzenberger, si evocano sempre le stesse immagini. La bandiera austriaca insanguinata trovata sulla monoposto di Ayrton Senna, che ebbe una reazione quasi premonitrice dopo la morte del collega, inquietante presagio di ulteriori sventure che si stagliavano all’orizzonte. Lo schianto indicibile a oltre 300 km/h. Ineluttabile. La sua testa chinata su un lato, simbolo della resa a un destino crudele, che di lì a poche ore lo avrebbe accomunato alla star per eccellenza del Circus. Roland è una figura collaterale nella vicenda che fece da spartiacque nella storia della F1. Spaccata in due: prima di Imola ’94, dopo Imola ’94.
Ratzenberger e Senna non avrebbero potuto essere più diversi nemmeno se fossero usciti dalla penna di uno scrittore. Ad accomunarli, solo due numeri. L’anno di nascita, il 1960. E quello della scomparsa, avvenuta nella crudele primavera del 1994 a Imola. A dividerli, la fama. Stratosferica, nel caso di Ayrton. Minuscola, nel caso di Roland. Il grande pubblico Ratzenberger lo conobbe solo nelle concitatissime fasi dopo il suo incidente. Ayrton, invece, non aveva bisogno di alcuna presentazione. Roland fu la tragica dimostrazione di un assunto valido ancora oggi: l’ultimo dei piloti merita lo stesso rispetto riservato ai fuoriclasse. Perché il rischio è lo stesso.
Le foto di repertorio di Ratzenberger lo vedono con stampato in faccia il sorriso smagliante di chi ancora fatica a credere di essere arrivato in F1, a 33 anni suonati. In un team, la Simtek, con uno sponsor importante, MTV, sulla monoposto. Con grandi speranze e mezzi limitati, ma non come le realtà più modeste. Nick Wirth, il proprietario della scuderia, era il figlioccio del presidente della FIA, Max Mosley. Gli agganci politici c’erano, quindi. I soldi, però, li aveva portati anche Roland. Aveva fondi per massimo cinque corse. Non poteva sapere che non li avrebbe mai disputati, tutti quei GP.
Non fosse andata com’è andata, Roland se lo ricorderebbero solo gli appassionati di vecchia data, con la benevolenza e la nostalgia di un tempo che non c’è più. Roland avrebbe avuto il suo piccolo spazio nella memoria di chi c’era, insieme ai Pedro Lamy, agli Ukyo Katayama. A quei piloti che hanno raggiunto il sogno di una vita, senza però lasciare il segno. E, invece, chi c’era si ricorda la concitazione intorno alla monoposto di Roland dopo lo schianto, con il personale medico a circondarlo, coprendogli il viso in un involontario gesto di pietà.
Da un cassettino della memoria emerge il disperato massaggio cardiaco praticato a bordo pista e trasmesso dai telegiornali la sera di quel 30 aprile 1994. Immagini crude, che probabilmente oggi non verrebbero proposte. Roland se n’era già andato, in quei momenti disorientanti. Ma la sua morte sarebbe stata ufficializzata solo all’arrivo all’ospedale di Bologna, così come sarebbe accaduto 24 ore più tardi a Senna.
Cominciò tutto da una crepa nel profilo anteriore della sua Simtek, causata da un passaggio troppo aggressivo su un cordolo. Cercava di ottenere con le unghie e con i denti la seconda qualificazione a un GP della sua carriera in F1, Roland. E decise di non fermarsi a verificare che fosse tutto a posto. Fu un errore fatale. Nel giro lanciato successivo, l’alettone si staccò, finendo sotto la sua vettura e rendendola ingovernabile. La corsa di Roland, diventato passeggero inerme, fu interrotta dall’impatto contro le barriere. Violentissimo. Troppo per sopravvivere.
La F1 era il suo sogno. L’aveva inseguito contro la logica, il buon senso, anche dopo aver ottenuto ottimi risultati nelle gare di durata. Roland non era un pilota pagante. Aveva talento. Aveva corso nella Formula 3 inglese, ma non aveva attirato l’attenzione dei talent scout che l’avrebbero potuto accompagnare verso la F1. Decise allora di tentare la carta del Giappone, approdando in Formula Nippon. Si fece notare, con buoni risultati. E si tolse lo sfizio, nel 1993, di ottenere la vittoria nella classe C2 alla 24 Ore di Le Mans, insieme ai co-équipier Mauro Martini e Naoki Nagasaka. Ma nei suoi desideri c’era ancora la F1.
Altri, superati i trent’anni, si sarebbero arresi. Roland no. Approdò in un team in cui i soldi che portava in dote erano usati per il compagno di squadra, il figlio d’arte David Brabham, il cui padre, Jack, aveva chiuso l’accordo di sponsorizzazione con MTV. Ma nell’unico GP in cui centrò la qualificazione, ad Aida, riuscì a portare il cuore oltre all’ostacolo, fino ad un undicesimo posto che sapeva di speranza. Non poteva sapere, Roland, che quella sarebbe stata l’ultima gara della sua vita. Non poteva sapere, il mondo della F1, che di lì a poco sarebbe stato sconvolto da un weekend terribile.
Roland è diventato un simbolo della pericolosità del motorsport, del sacrificio ultimo pagato per inseguire la passione di una vita. Fu un contraltare umile della tragedia di Ayrton Senna, che oscurò quanto accaduto 24 ore prima. Al funerale di Roland - privato, composto, come il dolore dei familiari - c’erano solo Max Mosley, il presidente della FIA, Gerhard Berger e Johnny Herbert. Due giorni prime, alle esequie di Ayrton aveva presenziato l'intero Circus. Cordoglio diverso per una morte che, tuttavia, li ha resi uguali.
Perché c’è dignità in ogni vita persa. Ma, soprattutto, c’è dignità nell’inseguire un sogno. Anche quando, come nel caso di Roland, la morte non arriva dopo una carriera di successi. Anzi, così la dedizione assume un significato ancora più profondo. Vale la pena vivere anche un solo giorno realizzando il desiderio più grande. Fosse anche per un unico GP, per un giro al limite. Roland era soddisfatto di sé, quando si mise il casco per l’ultima volta, il 30 aprile di 30 anni fa. Quanti di noi possono dire lo stesso?