Formula 1: Lewis Hamilton, ecco perché la sua voce conta

Formula 1: Lewis Hamilton, ecco perché la sua voce conta
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La fame di vittorie di Lewis Hamilton viene da molto lontano, dal viscerale desiderio di andare oltre i pregiudizi che gli hanno reso la vita difficile fuori dalla pista quando era un ragazzino. E la sua volontà di parlare di razzismo in un momento così delicato non è solo un capriccio fine a se stesso, ma un punto di partenza per una presa di coscienza importante
10 giugno 2020

A 35 anni e con sei titoli mondiali in bacheca, Lewis Hamilton potrebbe tranquillamente sentirsi appagato. Certo, manca ancora da battere il primato di Michael Schumacher, tutt’oggi il pilota più vincente della storia del Circus, statistiche alla mano. Ma, dopo 13 anni in Formula 1, sarebbe giustificabile un rallentamento nelle prestazioni, un crogiolarsi sui propri allori. E invece no: anche se il 2007 ormai è un orizzonte sbiadito nel tempo, Hamilton è ancora un cannibale senza pace. Verrebbe da chiedersi quale sia il motore di questa sete di primeggiare che non sopisce nel tempo: la risposta sta nella stessa essenza dell’inglese.

Inutile girarci intorno, Lewis Hamilton è l’unico campione del mondo nero della storia della F1, e, per come sono messe le cose nelle categorie minori, è destinato ad esserlo per molto tempo. Nel mondo ideale il colore della pelle non dovrebbe aver alcun significato, ma gli ultimi tragici avvenimenti negli Stati Uniti, con la morte di George Floyd per mano di un poliziotto, dimostrano come il razzismo, specie se violento, non sia purtroppo cosa del passato, né tantomeno una novità. Lo ha spiegato benissimo Kareem Abdul-Jabbar, ex star del basket che, con grande eloquenza, ha fatto notare come la furia contro le persone nere possa stupire solo chi la vede oggi presentata in tutta la sua brutalità, ma non chi vive questa realtà da sempre.

In un contesto del genere, è inevitabile che Hamilton sia profondamente - e forse anche dolorosamente - consapevole di essere l’unico uomo nero in mezzo ad una pletora di bianchi in F1. Toto Wolff, in un’intervista concessa ad Autosport, ha ricordato una conversazione con Hamilton per lui illuminante. «Mi chiese: ‘Hai mai pensato consapevolmente di essere bianco?’. Gli risposi di no, che non avevo mai dato peso alla cosa. Lui mi disse: ‘Vedi, io devo pensarci ogni giorno (al fatto di essere nero, ndr), semplicemente perché mi viene fatto notare che lo sono». Ad Hamilton non bastano i grandissimi successi colti in F1 per sentirsi accettato; la sua condizione di presunta diversità lo spinge a fare sempre di più, pur tenendo nascosto – almeno finora – il motivo di tanta volontà di imporsi sulla concorrenza.

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In un post su Instagram, Hamilton ha spiegato come i fatti delle ultime settimane abbiano fatto riemergere «tantissimi ricordi dolorosi della mia infanzia. Immagini vivide delle difficoltà che ho affrontato quando ero bambino, le stesse esperienze di razzismo e discriminazione che anche molti di voi avranno vissuto». Esperienze personali di cui Hamilton in passato difficilmente ha parlato, «perché mi è stato insegnato che era meglio tenersi tutto dentro, senza mostrare debolezze. Battere l’odio con la gentilezza, sconfiggere il nemico in pista. Ma fuori dall’ambiente delle corse sono stato oggetto di bullismo e picchiato, e l’unico modo per gestire la situazione è stato imparare a difendermi».

«Gli effetti psicologici negativi non sono quantificabili», aggiunge Hamilton. Ma sono anche il motore che gli permette, nella piena maturità della sua carriera, di essere una furia. Spinto dalla competitività della corazzata Mercedes, Hamilton continua a macinare successi, come se salire sul primo gradino del podio non fosse sufficiente. Nel 2004, quando aveva solo 19 anni, Hamilton disse ad Autosport: «Vengo dal nulla: ecco perché ho grandi ambizioni. Per via del colore della mia pelle posso avere un’influenza maggiore: è un plus non indifferente. Mi piacerebbe poter essere in grado di fare qualcosa per gli altri, fare sì che di me si dica ‘è stato lui a fare da pioniere’. Sarebbe fantastico. So che ci sono molte persone che non vogliono essere nulla di speciale, ma credo che sotto sotto tutti vogliano esserlo in qualche modo, nel bene o nel male. Non voglio sprecare la mia vita».

«Sarò contento quando conversazioni come queste non saranno necessarie, quando non saranno più degne di attenzione da parte dei media. Fino a quando non arriverà quel momento, so che si tratta di qualcosa di cui dovrò parlare, anche se sarei molto più felice di raccontare la mia prima vittoria». Sono passati 16 anni, e, sei titoli mondiali e 84 successi in F1 di Hamilton dopo, il mondo non è ancora cambiato abbastanza da rendere il razzismo un capitolo obsoleto. Per questo è importante che Hamilton parli delle proprie difficoltà, che si renda più umano. In molti storcono il naso, sostenendo che è facile fare il piangina, come direbbero a Milano, pur vivendo una condizione privilegiata; che non ha senso puntare il dito contro i colleghi bianchi, accusandoli di omertà e costringendoli a parlare di un argomento di cui farebbero a meno di disquisire. Altri tirano fuori i trascorsi di Mercedes, chiedendosi dove stia la coerenza di lamentarsi della propria condizione associandosi ad un brand dal passato – ormai remoto - controverso in termini di accettazione del diverso.

Quando si muovono queste critiche al sei volte campione del mondo di F1, ci si dimentica di una cosa fondamentale: Hamilton, prima di essere il campione tanto odiato dagli avversari, è una persona, una persona che vive una realtà che chi è bianco non può nemmeno lontanamente immaginarsi. Come spiega lo stesso Hamilton, l’idea di pensare al proprio essere bianchi come una condizione degna di nota è assurda per chi lo è; ma lo è semplicemente perché, in quanto bianchi, godiamo inconsapevolmente di un privilegio cui nemmeno facciamo caso. Privilegio su cui Hamilton, pur essendo una superstar fuori e dentro la pista, non può contare.

È vero – bisogna concederlo ai detrattori di Hamilton – che l’inglese, specie durante le gare, ha la tendenza a piangersi addosso, lamentandosi di problemi apparentemente inesistenti. Ma la sua indole caratteriale poco ha a che fare con il diritto sacrosanto che Hamilton ha di parlare della propria realtà, e di indurre alla riflessione anche i suoi colleghi, che, dal loro background spesso privilegiato, forse si sentono anche a disagio nel discutere di mondi, di condizioni così diversi dai propri. L’invito ad un dialogo costruttivo è il primo passo verso quello che potrebbe essere l’obiettivo finale cui tende Hamilton, diventare una figura di riferimento non solo per i successi in pista e i follower sui social, ma anche come attivista.

Hamilton potrebbe fare di più che affidarsi solo ad Instagram per i propri sfoghi – questo è indubbio - ma parlare di un argomento così doloroso per la prima volta, riuscendo a mostrare le sue debolezze, che prima faticava ad accettare, può essere l’inizio di un percorso che lo porti non solo ad essere la superstar delle corse che già è, ma un motore per un cambiamento dello sport dalle radici, come auspicato, almeno a parole, anche dai vertici della F1. Solo il tempo ci dirà se Hamilton sia davvero in grado di diventare il pioniere che sognava di essere da adolescente, ma una cosa è certa: i suoi messaggi, anche se scomodi e inopportuni per molti, sono quanto mai necessari, per rendere finalmente obsolete le conversazioni che risultano così fastidiose ai detrattori dell’inglese.

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