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Una pulita al casco, un'operazione meccanica nella quiete prima della tempesta, una tempesta che l'avrebbe spazzato via per sempre. Questa, il 5 ottobre di dieci anni fa, fu l'ultima immagine che il mondo vide di Jules Bianchi prima che si rimettesse il casco lindo e andasse incontro ad un destino terribile a Suzuka. Prima che un meccanico della Sauber fosse inquadrato, apparentemente senza motivo, per quasi un minuto. La ragione, invece, c’era eccome. Ed era terribile. Era già successo l'irreparabile. E quel punto fermo sul GPS, la macchina di Jules, non si sarebbe più mosso.
L'urto sconquassante davanti agli occhi di un impotente Adrian Sutil sarebbe diventato l'ennesimo esempio lampante, brutale, della pericolosità del motorsport. Il primo per la generazione di piloti cui appartenevano Bianchi e i tre talenti che salirono sgomenti sul podio quel giorno, Lewis Hamilton, Nico Rosberg e Sebastian Vettel. Aveva vinto Lewis, ma non importava a nessuno, tantomeno a lui. Quel GP sarebbe passato alla storia per delle immagini che, in una forma disgustosa di sciacallaggio, avrebbero poi fatto capolino online.
La condanna di Jules sarebbe arrivata poche ore dopo, sotto forma di una diagnosi senza via di ritorno. Danno assonale diffuso. Il suo corpo d’atleta avrebbe resistito per altri nove mesi, prima che Bianchi fosse pianto dai suoi colleghi e dall’intero Circus in un giorno d’estate del 2015. Ma quello che Jules era stato, un talento sull’orlo della consacrazione, non c’era più da quello schianto sotto una pioggia brutale, come sarebbero state le sue conseguenze.
Sono passati dieci anni, ma è impossibile non provare rabbia pensando alle circostanze di quell’incidente. La gru in pista, la visibilità sempre più limitata avvicinandosi all’imbrunire, la scelta di aggrapparsi alla necessità di continuare a tutti i costi. Quante volte si è tirata la corda allo stesso modo, senza che succedesse nulla? Vengono i brividi a pensarci, anche un decennio dopo. Alla fine, la colpa è stata attribuita all’unica persona che non avrebbe potuto difendersi, già intrappolata senza via d’uscita, inerme.
Il tempo corre veloce, esattamente come Jules faceva in pista. Della generazione di piloti nata nella seconda metà degli anni Ottanta che teneva banco nel 2014 sono rimasti in pochissimi in F1. È arrivato il momento di nuovi talenti, altre storie. Come quella di Charles Leclerc, intrecciata con il destino di Jules. Era il suo mentore, il suo faro in un ambiente turbolento. Oggi sta portando avanti il percorso che molto probabilmente avrebbe vissuto lo stesso Bianchi, se il destino non lo avesse atteso dietro a una curva in Giappone.
I 254 g dell’impatto a Suzuka spazzarono via le speranze del primo talento della Ferrari Driver Academy, rapito dalla passione per le corse come lo era stato anche il suo prozio Lucien, di cui portava il nome, morto nel 1969 a Le Mans. E spezzarono l’innocenza di un’intera generazione, cresciuta nella convinzione che in F1 dopo il sacrificio di Ayrton Senna non si morisse più. Come ci sbagliavamo. Ma non potevamo saperlo, noi, e nemmeno lui, che quella metodica pulizia del casco per passare il tempo durante la bandiera rossa sarebbe stata l'ultima per Jules.