Formula 1: Jo Ramirez, semplicemente un grande

Formula 1: Jo Ramirez, semplicemente un grande
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Jo Ramirez: la storia di un grande. Signorile, pacato e umile. E se la F1 torna in Messico dopo 23 anni, parte del merito è anche suo... | <i>P.Ciccarone</i>
29 ottobre 2015

C’è stato un tempo in cui il Messico e la F.1 viaggiavano di pari passo. Erano gli anni 50 e 60, quando i due fratelli Rodriguez, Ricardo e Pedro, si affacciarono alla F.1. Il primo correva con una Ferrari, era velocissimo, un talento che andava spesso sopra le righe al punto da morire in gara proprio nel suo GP perché voleva strafare. Pedro, invece, arrivò fino ai prototipi, alternando le gare in F.1 con la BRM a quelle sport con la Porsche 917, un mito dell’epoca, perito anche lui in un incidente in gara e per giunta su una Ferrari prototipo in una gara che non era di campionato. Un destino comune, la passione e la fine al volante di una Ferrari.

 

A quel tempo, però, insieme al giovane Ricardo Rodriguez arrivò a Maranello un altro giovane, un ragazzo appassionato di meccanica che era l’uomo di fiducia di Ricardo. E a Maranello quel giovane trovò casa, amici e la passione per un lavoro che non lo ha lasciato mai: si chiama Jo Ramirez. Per i giovani era l’uomo immagine della McLaren ai tempi di Senna e Prost, ma anche di Hakkinen e Coulthard. Una persona pacata, per bene, spinto da una passione estrema. E ancora oggi, se il Messico è presente in F.1, lo si deve a lui. Al suo lavoro di talent scout (Perez e Gutierrez sono frutti del suo lavoro) e lo stesso dicasi per il ritorno del GP 23 anni dopo l’ultima volta. Ebbene, a sentire Jo Ramirez viene il magone per quello che era lo sport una volta.

jo ramirez
Pochi sanno che la carriera europea di Jo Ramirez iniziò alla ferrari, per poi spostarsi a Woking

 

«Eh sì, quando sono arrivato a Maranello non avevo casa, avevo chiesto il permesso di dormire in officina e accettarono. Seguivo Ricardo in giro per il mondo, era un gran pilota, ma non sapeva limitarsi, come temperamento mi ricorda Gilles Villeneuve, uno che quando arrivava al limite dove superarlo in tutti i modi. Purtroppo Ricardo morì in gara e io persi il lavoro. A quel tempo alla Ferrari non c’era posto per uno straniero. Mi volevano bene tutti, ma era difficile per un messicano restare a Maranello. Morto Rodriguez la mia strada era segnata. Mi ricordo ancora quando caricai la mia Fiat 500 con le valigie, i pacchi e tutti i miei averi, un po’ dentro la macchina un po’ sul tetto e me ne andai in Inghilterra. Mica c’erano le strade di oggi all’epoca. Fu un viaggio lunghissimo, una avventura incredibile. Partivo verso l’ignoto. Trovai lavoro da meccanico presso Rob Walker, poi conobbi Dennis e tutto il mondo inglese che ruotava attorno alle competizioni. Finii alla McLaren e da lì non mi sono più mosso. Quando ho deciso di ritirarmi in pensione, Dennis mi fece ponti d’oro, non voleva che me ne andassi. Mi diede tutto il tempo per pensarci, ma credo proprio che la mia epoca fosse finita. Non ci si divertiva più ai circuiti, lo stress era superiore alle gioie, i tempi erano cambiati troppo, non mi ritrovavo più. Ho detto basta e sono felice di averlo fatto.»

Perez ha un enorme talento, come guida vale i migliori piloti del mondo, si rovina con un carattere arrogante e maleducato, che gli ha chiuso le porte dei top team

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Da quel momento in poi Ramirez si è dedicato alla sua passione: girare in sella alla sua Harley Davidson, viaggiare alla scoperta di luoghi storici e scoprire cucine diverse dalla sua. «Solo che il governo messicano mi ha dato l’incarico di trovare talenti da svezzare, occuparmi di loro e questo mi è piaciuto molto, mi ha dato la scossa per tornare in qualche modo nell’ambiente». Ai tempi della McLaren Ramirez era la “voce” italiana del team. Lo intervistavano tutti e lui rispondeva a tutti. Non c’erano addetti stampa a fare da filtro, Dennis si fidava di lui e lo lasciava fare. Dopo le vittorie di Hakkinen era Ramirez ai microfoni della Rai o di RMC a commentare la gara. Poi l’incarico, la fiducia di Carlos Slim, il magnate messicano che ha sponsorizzato il ritorno del GP e l’arrivo dei due piloti, Perez e Gutierrez

 

Sul primo Ramirez è molto chiaro: «Ha un enorme talento, come guida vale i migliori piloti del mondo, si rovina con un carattere arrogante e maleducato, che gli ha chiuso le porte dei top team. Quando arrivò alla McLaren fui felice, mi sembrava di tornare ai vecchi tempi, invece si è chiuso la porta da solo alle spalle. Un peccato perché, credimi, è un bel pilota davvero. Gutierrez per me è arrivato troppo presto in F.1, doveva aspettare un anno o due per maturare, ha avuto fretta, ora è alla Ferrari come tester, spero sia maturato nel frattempo».

 

Ma di  Senna e Prost, i rivali dell’epoca? «Mi trovavo in mezzo ai due, volevano sapere tutto, ma si fidavano di me, ero il punto di unione fra i due, mamma mia quanto stress anche lì, ma che squadra, mai vista una squadra più forte di quella, si spingevano sempre oltre e il limite del team andava avanti. Quando siamo stati in crisi la gente si chiedeva come mai. Alla McLaren il problema era la mentalità. Vincere sempre fa male, perché non ti fa capire come devi comportarti quando perdi. Essere competitivi è anche uno stato mentale, se lo perdi non ne esci più». Come con la passione. Se la perdi non ne esci più.

 

«Sono orgoglioso che la F.1 torni in Messico, potrei quasi dire che è anche merito mio, ma non è così». Sempre umile e gentile, un vero signore delle piste.

 

Un grande in poche parole.

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