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Atterrare a Città del Messico era come finire in una camera a gas coi motori sempre accesi. Dall’aereo lo scenario è impressionante, una distesa enorme di case, strade, luci immerse in quello che era il cratere di un enorme vulcano. Infatti la città sorge a 2200 metri su livello del mare, in quello che una volta era un lago sconfinato. La leggenda narra di un re alla ricerca di una terra sicura per il suo popolo, e questa terra sarebbe stata quella in cui un’aquila avrebbe preso in bocca un serpente. Quando il re e il suo popolo avrebbero avuto questo segnale, quella sarebbe stata la loro terra. E fu così che vagando e scappando da carestie, nemici e malattie, una mattina su un isolotto si vide levarsi in volo un’aquila che aveva appena preso un serpente. Lì il re decise di far sorgere la sua città e si fermò. La popolazione dragò il fondo, creò canali navigabili, al centro l’isolotto dove era stata vista l’aquila, intorno tante piccole insenature. Una sorta di Venezia attuale con la disposizione delle isole che oggi troviamo a the Palm a Dubai.
Passarono i secoli, la popolazione, specie dopo l’invasione spagnola, fu ridotta alla fame per carestie e guerre, l’acqua fu prosciugata completamente e in quello che era il letto del lago, che poi era il cratere del grande vulcano, sorse Città del Messico. Oggi la bandiera messicana è un tricolore con l’aquila e il serpente al centro. Ma la dislocazione della città spiega il perché dell’inquinamento enorme, perché tutta l’aria e i gas di scarico restano imprigionati all’interno di questa ciclopica caldera che ospita oltre 22 milioni di abitanti. E quindi il traffico è la prima cosa che si nota quando si atterra a Mexico City. Una volta si andava tutti all’hotel Transamerica, stessa catena di quello famoso di San Paolo in Brasile. L’autodromo, all’interno di un enorme parco (che comprende anche l’aeroporto) è abbastanza vicino. Una volta atterrati ed usciti si respira la prima zaffata d’aria malsana che, unita all’altitudine, fa venire capogiri da paura. Bere alcool qui fa più effetto che da altre parti. Ma anche stare in coda ai vecchi maggioloni (23 anni fa era la norma) con oltre 1,5 milioni di km alle spalle, faceva venire di quei mal di testa che kg di aulin non facevano calmare.
E poi il morbo di Montezuma. Ovvero bere acqua o toccare ghiaccio porta dritto al gabinetto, con dissenteria assicurata e febbre alta, anche respirare l’aria dagli impianti di aria condizionata. Un inferno per chi non è abituato. Diceva Riccardo Patrese, vincitore nel 1991, che non sono le pantegane quelle che si vedono in giro in città, sono gli anticorpi dei messicani che resistono a tutto! E proprio parlando del 1991 viene in mente una storia che fa capire molto su come correre in Messico. Tutti quanti eravamo in hotel e stavamo attenti all’acqua e al ghiaccio, purtroppo l’aria condizionata, con virus fermi da anni, non potevamo evitarla e così buona parte dello staff giornalistico, ma anche piloti come appunto Patrese e Mansell, si beccarono febbre e dissenteria. Chi scrive rimase due giorni fermo in camera, fra letto e bagno, con febbre che superava i 40 gradi. Chiamai un medico tramite la reception e mandarono il primo disponibile, un pediatra con tanto di paperelle per i bambini. Diede delle medicine, prese 100 dollari americani (all’epoca 220 mila lire!!! Cioè 110 euro attuali al netto dell’inflazione) e se ne andò. Niente, la febbre non passava e nemmeno la dissenteria.
Il poliziotto voleva la mancia altrimenti minacciava di bloccare i mezzi. Palazza junior non ci pensò due volte: fece scendere tutti dal mezzo, spense il motore, prese le chiavi e le buttò lontano in mezzo ai prati e se ne andarono tutti a piedi
Chiamai la reception (i cellulari non erano ancora disponibili all’estero) e chiesi di passarmi la camera di Walter Lombardi, (agenzia Derby) che era il fotografo di Rombo per cui facevo l’inviato. Doveva portarmi delle medicine chieste al dottor Beningno Bartoletti, medico della Ferrari, ma Lombardi non portò nulla. Quando lo passarono al telefono mi incavolai di brutto, lo riempii di insulti dicendogli che mi aveva lasciato nei casini senza farsi sentire. «Mi scuso, non volevo affatto, chiedo perdono per questa dimenticanza» risposi se era scemo visto che mi dava del lei. Era l’ingegner Claudio Lombardi della Ferrari, responsabile della GES! Avevano sbagliato a passarmi Lombardi al telefono, il primo che avevano trovato me lo girarono e io lo riempii di insulti senza sapere che non era il mio collega e amico! Mi scusai, gli spiegai il perché e lui fu rapidissimo, mi mandò il dottor Bartoletti in camera che capì al volo cosa avevo. «Prendi queste due pillole adesso e due domattina, bevi acqua minerale e poi ci vediamo in pista». Come mai non era venuto prima? «Ho qua Patrese che ha lo stesso problema, lo rimetto in sesto io e magari vince la corsa» disse. E i piloti della Ferrari, Alesi e Prost? «Quelli stan bene, digeriscono anche i sassi». Domenica mattina, come di incanto è tutto sparito, arrivo in autodromo e vedo Patrese che viene incontro: «Come stai? Io non so cosa mi ha dato ma vado come una scheggia». E vinse dopo un duello fantastico con Mansell. Ripartimmo il lunedì dopo la gara e fino a martedì pomeriggio, dopo una sosta a Houston e una ad Amsterdam in un viaggio che non finiva mai, quando tornai a casa dormii 48 ore di fila senza sapere mai cosa avessi preso!
Avevamo detto del traffico, ma anche la polizia era abbastanza “strana”, infatti capitava sempre che i pulmini dei team venissero fermati uscendo dall’autodromo. Dai oggi e dai domani, un bel dì quello della Fondmetal si bloccò in mezzo alla strada. Era al volante il figlio di Gianfranco Palazzoli, che faceva da DS. Il poliziotto voleva la mancia altrimenti minacciava di bloccare i mezzi. Palazza junior non ci pensò due volte: fece scendere tutti dal mezzo, spense il motore, prese le chiavi e le buttò lontano in mezzo ai prati e se ne andarono tutti a piedi, lasciando i poliziotti a urlare e minacciare con centinaia di auto in colonna ferme a suonare il clacson disperatamente!
Altre disavventure un anno in cui, senza computer, la prenotazione dell’albergo era sparita. Alle due di notte cercare un hotel a Città del Messico non era cosa facile, in qualche modo ci riuscimmo, peccato che fosse a 50 km dalla pista, dalla parte opposta della città e con un traffico dove si stava bloccati delle ore fermi senza poter far niente. Il tassista, però, era geniale e dietro pagamento di un paio di biglietti, una maglietta della Ferrari e regalini per il figlio, dimostrò che si può correre un GP anche senza essere piloti di F.1… Però in alcune occasioni c’era stato anche il tempo per un viaggio culturale, visitare il museo di antropologia che è favoloso, oppure le piramidi del sole e della luna a Teotihuacan, a 60 km dalla città, oppure i concerti di Mariachi o le rappresentazioni al teatro dell’opera. Un anno, il primo, era il 1989, ci fu anche un piccolo… incidente diplomatico. Ero inviato per Autosprint alla Coppa delle Nazioni, un evento corso con vetture Chevy sponsorizzato Marlboro. Era una sorta di olimpiade a motore, dove due piloti di ogni nazione si sfidavano in pista. L’Italia era rappresentata da Gianni Morbidelli e Vittorio Zoboli. Per l’Argentina c’era Juan Manuel Fangio jr, Andretti jr per gli USA, Justin Bell per la Gran Bretagna, Frentzen per la Germania, Allen Berg per il Canada, Jordi Genè per la Spagna, tanto per citarne alcuni.
Il marito, secondo le leggi locali, voleva sfidarmi a duello con la pistola per lavare l’onta. E lei, che intanto faceva la giornalista a una TV locale, era fiera di me…
Col team diretto da Guido Forti e Paolo Guerci si vinse con Gianni Morbidelli. La sera, invece che partecipare al galà all’hotel Camino Real, Forti decise di ripartire subito per l’Italia. Per scusarmi con l’addetta stampa, la biondissima Patricia, sposata con un tedesco che correva in auto, chiesi a Fangio jr di mandare dei fiori per ringraziare dell’accoglienza. Juan Manuel prese le pesetas avanzate e disse «tranquillo, ci penso io!». Io partii e finì lì. Poi scoprii che aveva mandato a nome mio un mazzo di rose e dei cioccolatini. Che nel linguaggio locale era una dichiarazione d’amore! Quando lo scoprii fui in imbarazzo, lo fui di più l’anno dopo quando arrivai per il GP e scoprii che il marito, secondo le leggi locali, voleva sfidarmi a duello con la pistola per lavare l’onta. E lei, che intanto faceva la giornalista a una TV locale, era fiera di me…
Vissi dei giorni difficili in autodromo, anche considerando che la sala stampa era uno stanzino con scrivanie in legno semicircolari, che i telefoni non andavano e che i bagni erano una sola latrina per 1000 persone e con l’aggiunta di topi, tantissimi topolini, che giravano indisturbati per la pista e il parco circostante, inframmezzati ogni tanto da palle da baseball che attraversavano la pista da un senso all’altro quando passavano le macchine perché in fondo al rettilineo centrale c’erano due campi e si svolgevano i campionati nazionali. La cosa si venne a sapere, e da Senna in giù, tutti a prendermi in giro, fino a quando in aeroporto, il lunedì mattina, Zermiani mi prese da parte e mi disse «va che c’è una bionda che ti aspetta coi bambini dietro la vetrata» mi girai, era lei che salutava col fazzoletto come nei film.
Fui felice di partire e di non farmi vedere più da quelle parti. Chissà che fine ha fatto…