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Svizzero per modo di dire. Brianzolo al più. Con la parlata e l’accento del monzese puro. Clay Regazzoni, svizzero di nascita, italiano di adozione, non c’è più da 10 anni ormai. Da quel 15 dicembre in cui il suo cuore enorme si fermò per strada. Era pomeriggio, nebbione solito del periodo quando dalla Gazzetta di Parma un amico mi avvisò che la polizia stradale aveva trovato Clay senza vita in quello che sembrava una banale uscita di strada.
Anni di farmaci per lenire le sofferenze di un drammatico impatto a Long Beach con la F.1 che lo imprigionò su una sedia a rotelle. Imprigionò? Termine sbagliato. Clay faceva ancora quello che voleva come voleva. Gli pesava, ma non lo dava a vedere. Lottava sempre. Voleva continuare a correre e lo faceva. Col kart, legava le gambe al piantone dello sterzo e via. Fino a quando una gamba si slacciò e uscendo dal telaio andò a urtare contro le barriere, fratturandosi: “Non me ne sono accorto, uno dei vantaggi di non sentire la parte bassa del corpo” disse ironico.
Anni di farmaci per lenire le sofferenze di un drammatico impatto a Long Beach con la F.1 che lo imprigionò su una sedia a rotelle. Imprigionò? Termine sbagliato. Clay faceva ancora quello che voleva come voleva. Gli pesava, ma non lo dava a vedere. Lottava sempre. Voleva continuare a correre e lo faceva
E poi le sfide in auto, Monza 2003, Fun Cup coi maggioloni. Safety car per rimuovere incidente, gruppo compatto e al via due vetture che fanno tutto il rettilineo a sportellate, parafanghi e cofani che volano via. Uno era Gianni Giudici, l’altro Clay Regazzoni: “Non si spostava, dovevo passare” dice il Clay. Peccato che in mezzo ci fosse chi scrive e trovarsi fetta di salame in un panino simile non è stato bello: “Ma dai, avrai qualcosa da raccontare. Non ti ho sportellato? Cavoli, sto invecchiando, la prossima ricordamelo che provvedo…”.
Ecco, era questo e tutto il resto. Esempi a pacchi. Non tanto della sua vita di prima, quella del pilota playboy che di notte infrangeva tutti i record di durata con avvenenti fanciulle, ma restando sempre fedele (a modo suo) e legato alla famiglia per cui stravedeva. Non serve ricordarlo al volante della Ferrari della Williams (sua la prima vittoria del team in F.1) o gli anni con la BRM e Lauda al fianco o la fine carriera con la Ensign. Quella è storia scritta negli annali. Il Clay, come lo chiamavano tutti, era quello che in cabina di commento alla RAI diceva quello che pensava e gli fu ritirato il pass per ritorsione. Lui se ne sbattè.
E continuava a rischiare a modo suo. Dai tempi in cui piegava in curva con la sua Kawasaki 1000 facendo scintille con le pedane, ai tempi in cui su una sedia a rotelle, in pieno centro di Buenos Aires, attraversava col semaforo rosso in mezzo ad auto impazzite avenida 9 de Julio, stradone a sei corsie per lato in cui gli argentini si sfidavano. Lui sereno, esce dal ristorante dove ci ha riempiti di aneddoti, alza le ruote della carrozzella come se stesse impennando e ci fa: “Dai scommettiamo a chi arriva prima dall’altra parte”. E schizza via a razzo in mezzo al traffico e noi a gridargli “Clay Clay sta attento”. Niente da fare.
O come un giorno di prove F.1 a Kyalami. La sedia gettata in un prato, lui in piedi aggrappato alla rete a guardare gli altri in pista: “Se non vedi come guidano non puoi mica commentare dallo schermo – disse – così capisco chi ha problemi con l’auto o chi è una pippa a guidare”. Poi si girò, stirò le gambe e disse: “Mi recuperi la sedia? Non vorrei strisciare in mezzo al prato” e via di corsa a vivere la sua vita.
Continuava a rischiare a modo suo. Dai tempi in cui piegava in curva con la sua Kawasaki 1000 facendo scintille con le pedane, ai tempi in cui su una sedia a rotelle, in pieno centro di Buenos Aires, attraversava col semaforo rosso in mezzo ad auto impazzite avenida 9 de Julio, stradone a sei corsie per lato in cui gli argentini si sfidavano
Era attento, seguiva sempre quanto avveniva nelle corse e leggeva tutto di tutti. “Bravo, mi è piaciuta la storia del biglietto da visita che hai raccontato in TV” disse una volta chiamandomi al telefono. Primo, non gli avevo mai dato il numero. Secondo il grande Clay che chiama me? “Hai fatto bene a parlare di come i piloti in pista devono farsi rispettare, a costo di buttare via una gara. Ai miei tempi di gare ne buttavamo via poche, ci capivamo al volo su chi fosse un bastardo e chi una mammola, oggi no, ma hai fatto bene a ricordarlo”.
E se l’ho ricordato è perché fu proprio lui una sera, durante una cena di un Ferrari Club a Varedo, provincia di Milano, a raccontarlo: era il 1983, era ospite insieme a un giovane di talento, Ivan Capelli. “Vedi, ti ho visto correre, per me farai una bella carriera” disse ad Ivan. Poi mi guardò negli occhi: “Tu invece farai il giornalista, hai la passione per raccontare questo mondo, cerca di non svenderti e dare via il cul… come fanno alcuni e vedrai che sarà bello. Ma la pagherai sulla tua pelle, come l’ho pagata sulla mia per aver parlato sempre chiaro”. Ecco, il Clay ci aveva preso, si continua a pagarla ancora sulla propria pelle solo per fare il lavoro onestamente. Qualcuno ti mette nella lista dei cattivi perché gli altri posti sono tutti occupati. Clay Regazzoni il suo posto se lo è scelto da solo ed è giusto ricordarlo.
Foto apertura: The Telegraph