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La mattina del mio trentacinquesimo compleanno, appena svegliata, non avevo contezza né di dove fossi, né tantomeno della ricorrenza che avrei dovuto festeggiare. Le Mans, lontano dal circuito su cui le macchine fendevano il buio, languiva in attesa che arrivasse l’alba. Con due ore e mezza di sonno all’attivo, realizzare che avrei avuto davanti altre dieci ore di lavoro è stato uno schiaffo in piena faccia, ben più della peggior sbornia. Ma che il weekend della 24 Ore di Le Mans sarebbe stato una mazzata sui denti l’avevo capito quando, dopo un fantozziano viaggio in macchina a tappe, ero arrivata in circuito venerdì mattina, spossata come se fosse già domenica sera, ma con la consapevolezza di dover fare ancora tutto.
C’è un sottile filo di stanchezza che percorre la vita di chi segue le gare in presenza, per via delle giornate lunghe e delle agende che continuano a cambiare in base a quello che succede in pista. Questo in un ambiente estremamente piccolo, soprattutto per una categoria in particolare. Nel paddock della F1 sembra di tornare al liceo, tra i pettegolezzi, le faide di chi non si tollera e la familiare presenza delle solite facce. Quando si viene catapultati in un mondo del genere è normale sentirsi spaesati. Tutti si muovono vorticosamente come operose formichine, alla disperata ricerca della chicca da portare a casa, o di qualche dichiarazione ad effetto.
È una giungla. Le open media session non moderate sono un’esperienza mistica. I giornalisti inglesi, pavoneggiandosi, fanno la ruota esibendosi in arzigogolate domande, giusto per sottrarre del tempo ai poveri tapini che cercano di farsi sentire dal pilota di turno. Il trucco è uno solo: anche se qualcun altro sta tentando di abbozzare una domanda nello stesso momento in cui lo stai facendo tu, continua a parlare se il pilota ti sta guardando. In conferenza stampa, il problema è un altro: farsi notare con la mano alzata. Il mio guardaroba variopinto - tanto da indurre i colleghi divertiti a scommettere sul colore che avrei indossato il giorno dopo - ha aiutato, in questo senso.
La vita del giornalista race-by-race, a cui i pass vengono – si spera – accordati volta per volta, è fatta di rifiuti. Mentre i colleghi con il pass permanente fluttuano forti del potere del cordino nero, noi miseri race-by-race ci sottoponiamo ogni volta all’umiliazione collettiva della richiesta del pass per la griglia, solitamente respinta, a meno che, dopo una serie di presenze, si riesca finalmente a farsi notare. L’unica volta che sono finita in griglia quest’anno, a Spa, ho pure rischiato di non ritirare lo sticker che apre le porte del paradiso. Grazie alla mia calligrafia impeccabile, che pure Champollion farebbe fatica a decifrare, il pass era stato dispensato a una tale ‘Bilemma Ciolombo’. Ma lo sticker per la griglia è la punta dell’iceberg. Riuscire a ottenere un’intervista 1:1 implica una serie infinita di richieste e di solleciti, con scarse speranze di venire accontentati, anche se non si punta troppo in alto nella scelta del pilota.
Con il passare dei GP, però, la danza per la sopravvivenza si fa meno dura. La coreografia, dopotutto, si impara. Piano piano si comprende come muoversi con maggiore efficacia, come raccogliere materiale da sfruttare più avanti. Volti prima sconosciuti e forse anche un po’ burberi diventano familiari punti di riferimento. E i piloti, da personaggi bidimensionali come li si vede da lontano, acquistano tridimensionalità. Ti accorgi di chi rimane in modalità risparmio di energia con gli occhi sbarrati durante le conferenze, di chi è estremamente umorale a seconda delle circostanze, di chi è incazzato, di chi avrebbe avuto voglia di rigirarsi nel letto anziché trovarsi di fronte ai giornalisti. La stessa sensazione che a volte si ha pure dall’altro lato della barricata, quando essere sul campo diventa una prassi rodata e non più l’eccezione.
È solo così che si scopre che la vita dell’inviato – come si diceva una volta – o dell’accreditato – come si dice oggi – è fatta di una serie di eventi che non si possono controllare. La macchina a noleggio che, in un giovedì mattina di pioggia nelle Ardenne, decide improvvisamente di non volersi più accendere. Le chiavi dell’alloggio in Austria cercate nel buio totale della Stiria by night con le torce dello smartphone per colpa di indicazioni poco chiare. L’atterraggio a Malpensa nel bel mezzo di un acquazzone torrenziale, con una serie di vuoti d’aria ad anticipare l’annuncio del comandante un nuovo giro sulle montagne russe causa traffico. La corsa in stazione a Montecarlo, come Cenerentola a mezzanotte, per la cancellazione di tutti i treni verso l’Italia dopo le 21. L’ingorgo di traffico che ti fa quasi perdere l’aereo per tornare in Italia da Bruxelles.
Per una maniaca del controllo come me, tutto questo ha i risvolti di un incubo. Ma imprevisto dopo imprevisto, si impara a prendere il fiato, e ricominciare. Se c’è una cosa a cui non ci si abitua mai, invece, quella è la magia delle corse. La trovi dietro i muretti delle Piscine di Montecarlo, quando i piloti sembrano puntare verso di te prima di schivarti all’ultimo. La senti sotto i piedi percorrendo la sopraelevata di Zandvoort. La percepisci all’Eau Rouge, pericolosa e quasi malinconica. La vedi a Le Mans, osservando le macchine veleggiare nel buio durante un acquazzone all’Hunaudières. La cogli nella quiete apparente della Stiria, pronta ad essere squarciata dal rombo dei motori, e sui rettilinei di Monza, su cui scorre la velocità pura.
In un ambiente così competitivo e caotico, però, è facile sentirsi fuori posto. Ma prima o poi arriva il momento in cui finalmente ci si sente parte di qualcosa di più grande. A me è successo sotto la pioggia battente di Spa, in un pomeriggio di fine luglio dal sapore tardo autunnale in cui le Ardenne, selvagge quanto inospitali, sembravano voler scacciare chi lavorava in circuito. Chiamati a raccolta da Pierre Gasly, ci ritrovammo tutti a percorrere il tratto che dal rettilineo della partenza porta all’Eau Rouge. Quelli erano stati gli ultimi metri della vita di Anthoine Hubert.
Non fu solo la pioggia a prenderci a schiaffi, in quel pomeriggio uggioso. Lo fece anche la disarmante consapevolezza di quanto possa ancora essere pericolosa quella passione che muove l’intero, piccolo microcosmo della F1 e delle categorie di contorno. Non importava da dove venissimo e cosa facessimo: eravamo tutti accomunati dall’amore per le corse. Talmente totalizzante da portare a sacrificare tantissimo, forse tutto. Con le lacrime agli occhi, mi guardai intorno cogliendo le stesse sensazioni che provavo sul volto di chi mi circondava. E per la prima volta mi sentii davvero parte di qualcosa di più grande di me.
Mi ci sono voluti trentacinque anni di vita e un bel po’ di gavetta per arrivare a sentire con regolarità la puzza, la fatica, l’umanità nascosta dietro la competizione. Mi sono dovuta risvegliare la mattina del mio compleanno in preda alla confusione più totale per capire cosa siano davvero le corse, e che posto possa avere io nel microcosmo che ne costituisce il cuore pulsante. Ma quel mattino, nella calma prima della tempesta, mi sono resa conto che dietro a tutti i sacrifici si nasconde il privilegio di poter cogliere anche un solo piccolo dettaglio che da casa non si scorge e poterlo raccontare a chi non c’era. E poter dire, con fierezza, che quella volta c’ero anche io.