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Il 17 luglio del 2015, nella sua Nizza, moriva Jules Bianchi: la sua tempra di atleta gli aveva consentito di fare ritorno a casa dal Giappone e di lottare strenuamente per oltre nove mesi, ma nulla aveva potuto contro il gravissimo danno assonale diffuso riportato in seguito all’incidente nel Gran Premio del Giappone 2014. Per la prima volta dopo 20 anni, la Formula 1 si trovava così a piangere un pilota. Non la più fulgida stella della galassia del motorsport, come nel caso di Ayrton Senna, ma un giovane emergente, che a 25 anni era pronto per il grande salto di carriera.
Dell’incidente di Bianchi si è discusso molto, e ci sarebbe parecchio da dire anche oggi – il motivo per il quale ci fosse una gru a bordo pista, la decisione di partire sotto la pioggia battente quando la visibilità era destinata a diminuire ulteriormente andando verso l’imbrunire – ma, quasi sei anni dopo, sarebbe un esercizio inutile. Quello che resta è un impatto devastante, una decelerazione di 254 g impossibile da sostenere per il corpo umano. E la diagnosi, arrivata il giorno dopo lo schianto, non lasciava spazio ad alcun ottimismo: danno assonale diffuso, una vera e propria condanna.
Non siamo particolarmente spirituali, ma possiamo ipotizzare che l’anima di Jules, ciò che lo contraddistingueva, se ne fosse già andata dopo quel tremendo impatto. Quell’eleganza, la grazia nei modi, il sorriso gentile di un ragazzo semplice ed educato, erede di una dinastia legata a doppio filo con le corse: papà Philippe gestiva una pista di kart, mentre il prozio Lucien aveva toccato con mano il successo a Le Mans nel 1968, per poi cadere come Icaro involato l’anno successivo, trovando un destino beffardo proprio al Circuit de la Sarthe.
E Jules, che di secondo nome faceva proprio Lucien, aveva trovato come il prozio la propria dimensione in pista, facendosi strada nelle categorie minori prima di approdare in Formula 1 con la Marussia, nel 2013. Ma il futuro si prospettava ben più roseo, visto che Bianchi sembrava destinato a vivere la prima storia di successo della Ferrari Driver Academy, all’epoca ai suoi albori. Sì, perché Bianchi era molto vicino a trovare un posto al sole in Ferrari. Lo aveva confermato dopo la sua scomparsa Stefano Domenicali: sarebbe approdato a Maranello, «ma purtroppo il destino ce l'ha portato via».
E allora, cinque anni dopo, resta solo il rammarico dovuto al fatto che Bianchi sia stato conosciuto dal grande pubblico solo per via del suo terribile incidente. Jules non ha avuto il tempo di associare il suo nome al talento che possedeva e che aveva già mostrato a Monaco pochi mesi prima dello schianto. Lo splendido nono posto nel Principato, dove conta più il pilota che il mezzo, aveva fatto capire ai più attenti di che pasta fosse fatto il nizzardo. E quei due punti salvarono la Marussia dal fallimento, consentendole di iscriversi alla stagione 2015: tutto merito di Jules.
Ma il destino non ha concesso a Bianchi di esprimere il proprio potenziale, ma solo di dimostrare ancora una volta un assunto doloroso: Motorsport is dangerous. La FIA lo scrive anche sui pass distribuiti ai giornalisti, ma si fa presto a dimenticarsene. Specie se, come è successo alla generazione di Jules, ma anche di Hamilton, Vettel, Rosberg e di chi scrive, si è cresciuti nell’epoca post-Senna, convincendosi che sì, la Formula 1 è pericolosa, ma non si muore più. Ci è voluto Jules per minare dalle fondamenta questa convinzione, che era cresciuta nel tempo con l’incidente di Robert Kubica in Canada nel 2007 e quello di Felipe Massa in Ungheria nel 2009, entrambi scampati ad un destino tremendo.
E a prendere il testimone di Jules, finendo il percorso lasciato tragicamente a metà, è stato il suo figlioccio, Charles Leclerc. Talmente simile a Bianchi nei modi da farci quasi illudere, all’inizio della sua avventura in F1, che Jules fosse tornato, che fosse stato tutto un incubo. Temprato da lutti pesantissimi quando era poco più di un ragazzino – Bianchi, ma anche papà Hervé – Leclerc ha la forza d’animo e la resilienza dei campioni. E quando diventerà effettivamente campione del mondo, siamo sicuri che il primo pensiero andrà al suo mentore Jules, talento gentile e purtroppo inespresso.