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C’è stato un tempo nemmeno troppo lontano in cui coi piloti di F.1 ci si parlava senza addetti stampa di mezzo e senza forzature varie, un tempo in cui i piloti ti invitavano a cena o li invitavi tu e andavi magari a fare le vacanze a casa loro. Un tempo in cui i campioni si chiamavano Ayrton Senna, tanto per citarne uno che non è un rimpiazzo.
Era il tempo in cui, giovane e coi capelli neri a zazzera che sembra di un’altra epoca siderale, si poteva parlare nei box durante le prove, spettegolare sulla fanciulla bionda vista nei box con Prost o con la giornalista che frequentava tizio. Era il tempo della F.1 umana, quella in cui non erano i social a diffondere notizie (si vabbè…) prese in giro copiando dalle riviste specializzate (alzi la mano chi ha letto il nome di Autosprint su alcune notizie diffuse di recente o della Gazzetta dello Sport o Autosport, Autobild e la stessa Automoto.it) e diffondendole come verbo proprio.
Era il tempo in cui si andava a braccio, si parlava col pilota, si scrivevano storie vere, si capiva chi fosse di fronte, gente con gli attributi che non avevano bisogno di un registratorino davanti al muso per evitare di dover smentire cosa ha detto o non ha detto. Una volta, parlando del Brasile, c’era la simpatica tradizione della fejoada a casa di Barrichello, dove trovavi riunita tutta la famiglia, parlavi col nonno, la nonna, il padre, la sorella, capivi che il pilota era un essere umano che faceva cose eccezionali con un volante in mano.
Diniz e la rapina sventata dall'autista
E che dire del freddo Pedro Paulo Diniz? Un giorno venne a prenderci l’autista con la macchina blindata e ci portò a casa di Pedro dove c’era la famiglia e poi in ufficio. L’esperienza fu da ricordare perché fin tanto che si era nel traffico di San Paolo da soli con l’autista, tutto regolare. Quando arrivò Pedro Diniz col suo fuoristrada e un’altra vettura di scorta, cominciò l’avventura. Semafori rossi saltati, gomme che fischiavano sull’asfalto, incidenti evitati di misura, tensione alle stelle e guardie armate sulla via di ingresso alla villa nel centro di San Paolo dove un muro alto di cinta, coperto da alberi altissimi, celavano alla vista un angolo di paradiso.
Che era pericoloso quando, tornando in hotel, scendemmo dal lato “sbagliato” della strada e stavamo per essere assaliti dal solito balordo che circola in centro a caccia di turisti da spennare. L’autista scese dall’auto, con la pistola in pugno e disse tranquillo: «Attraversate pure, qua la situazione è sotto controllo» col povero ladruncolo che alzò le mani e disse «E che diamine, tutto sto armamento per una roba da niente!». La vita passò via liscia con qualche patema d’animo.
Natale con Senna
Con Senna le cose furono diverse. Gli inizi difficili, non era un tipo facile da capire. Poi ci fu lo scongelamento, la fiducia conquistata sul campo, le chiacchiere nei box. Lui era già campione del mondo, chi scrive alle prime stagioni di F.1, eppure Ayrton si fermava a parlare, chiedeva, si informava. E quando c’era da rilasciare dichiarazioni, eravamo a fianco, senza filtri o addetti stampa. Lo choc di trovarlo alla tomba di Morumbì, dopo averlo visto morire a Imola e il padre che ci accoglie a casa sua, nel quartiere Santana, a nord di San Paolo, la mamma e la sorella che ci fanno accomodare, il rapporto umano che si era creato nel frattempo, è di quelli molto forti che a distanza di decenni, quando ci si incontra, è ancora fortissimo.
Oggi che fa il TG2 Motori, Maria Leitner è un volto conosciuto della TV. All’epoca era la voce dei box di TMC nelle telecronache della F.1. Ebbene, Ayrton Senna invitò lei e altri giornalisti a fare le vacanze di Natale ad Angra Dos Reis, per passare le feste tutti insieme.
Pensate oggi a chi è sullo schieramento a come parla, (poco) e pensate alla differenza abissale di gente come Senna che era un grande rispetto a un Max Verstappen che non risponde nemmeno dopo precisa domanda filtrata dall’addetto stampa. E capirete subito perché viene lo scoramento a dover raccontare questa F.1 e a trovare spunti di discussione.
Le tette portafortuna di Mansell
Con Jean Alesi o Gerhard Berger si discuteva di tutto, si scherzava e si andava cena, con Trulli e Fisichella le mangiate di pesce erano all’ordine del giorno, Jarno poi invitava anche a casa sua in Abruzzo a mangiare arrosticini. Nigel Mansell, uomo tutto di un pezzo sposato di ferro con la moglie Roxane, quando vedeva una giornalista italiana nei box, con un seno enorme e bellissimo, come augurio di buona fortuna doveva darci una strofinata con le mani e la moglie rideva, e la stessa cosa voleva fare Patrese. O le serate a cantare sul piazzale dell’albergo a Spyer, in Germania, coi piloti del team Minardi o con Prost che rideva insieme ai francesi poco più in là.
Son cambiati i tempi, inutile nasconderlo, inutile avere rimpianti. Di sicuro questa F.1 si è chiusa in se stessa, ha perso l’anima e i vari PR non lo capiscono. Eppure ci sono piloti in grado di trascinare le folle. Capaci di dare di più.
Perché Vettel non parla italiano?
Vettel, ad esempio. Non era simpatico quando correva con la Red Bull, ma ora per alcuni è diventato un idolo solo perché corre con la Ferrari. Parla bene italiano, lo parlava anche prima di andare alla Toro Rosso nel 2008 e all’epoca ci parlavi per strada e lo intervistavi senza problemi. «Ragazzi, dai che andiamo a fighe stasera», diceva ai suoi meccanici. O quando, tester BMW, si esibiva nelle piazze con la F.1 e poi diceva alla fanciulla di turno: «Ciao bella gnocca».
Domenica scorsa al Mugello lo han sentito via radio dire «Marc non ho capito un cz…». Ma perché non farlo parlare in italiano? «Perché poi finisce come le ciliegie, una domanda tira l’altra e non si finisce più», mi rispose Alberto Antonini, addetto stampa Ferrari. Ed è uno col quale abbiamo vissuto gli ultimi 24 anni di vita sulle piste della F.1.
Quella volta che invitammo Schumacher
E Schumacher? Un grande. Nel 1995, separato dalla Benetton, invitò a cena i giornalisti italiani. Eravamo a Cascais, Portogallo. «Visto che l’anno prossimo devo avere a che fare con voi, meglio conoscersi di più». La Ferrari lo impedì, allora fu invitato da noi giornalisti. E anche qui, con la moglie appassionata di cavalli, organizzò a casa sua in Svizzera gare, incontri e barbecue con i giornalisti.
E quando a Monza Confartigianato Motori decise di assegnargli il premio alla carriera, Michael arrivò tardissimo. Non voleva più venire perché aveva fatto tardi coi tecnici. Gli dissi che c’erano ad aspettarlo 1.200 persone. Arrivò col taxi, si pagò la corsa e chiese scusa a tutti per il ritardo, ma si era presentato per rispetto dei tifosi.
Ecco, un Ricciardo o un Kvyat hanno i numeri per essere umani, un Alonso e un Button anche ma non li lasciano liberi, Vettel potrebbe essere più “cazzaro” ma la Ferrari lo blinda. E Raikkonen? Non ci crederete, ma a casa sua in Finlandia, quando era alla McLaren, aveva ospitato dei tifosi italiani e tenuti a cena col padre, la mamma e il fratello. Stessa cosa che aveva fatto anche Irvine in Irlanda. Un’altra F.1, altri tempi. E quando si comincia a vivere di ricordi, forse è il momento di finirla davvero con questo ambiente…