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C’era una volta il GP USA. Fino agli anni 50 era la corsa di Indianapolis quella inserita nel calendario del mondiale F.1 ma era una corsa atipica e diversa dalle altre. Poi è arrivata Watkins Glen, pista che giusto 40 anni fa fu fatale al francese Francois Cevert, compagno alla Tyrrell di Jackie Stewart. Poi ancora Indianapolis, versione moderna e infine Austin, in Texas, pista progettata dal solito Tilke con caratteristiche artificiali che agli americani sembra piacere.
Da Indianapolis a Austin
Sembra, perché da queste parti le mode passano in fretta e solo luoghi storici come Indianapolis o Sebring, Daytona e simili vantano una tradizione e una conoscenza degli sportivi locali. A Indianapolis si tornò nel 2000 e vi si arrivava con la curiosità di vedere il nuovo impianto, ricavato a metà sul solito tracciato con le curve sopraelevate, e per metà nel vicino capo da golf, massacrato per l’occasione con una striscia d’asfalto insulsa e per niente impegnativa. Chi ha seguito la 500 Miglia di Indianapolis e conosce l’approccio mentale degli americani per questa corsa, deve ricredersi parlando di F.1.
Il confronto è perdente sotto tutti i punti di vista per l’entusiasmo che suscita la prima e l’indifferenza della seconda. A parte la Ferrari e Schumacher, il resto della truppa di F.1 è formato da perfetti sconosciuti che non sanno alimentare la passione degli sportivi americani. L’organizzazione, quasi perfetta per la Indy 500, per gli standard della F.1 è perfettibile e non molto adeguata, anche se certi meccanismi sono perfettamente oliati, come l’organizzazione dei parcheggi, gli ingressi, l’accesso al museo interno e altro ancora. Ad Austin si corre quasi nel deserto, manca tutto in zona, la città è poco lontana, carina, ma senza grosse pretese. Il massimo della popolazione è concentrata nelle megaville sulle colline circostanti. Tutte con giardino, piscina e campo da golf privato. Una città per poveracci, insomma.
La qualità della vita però è alta, tipica USA per chi ha i soldi, gli altri si arrangino da altre parti. E questo spiega perché è stata scelta questa località. L’anno scorso ci fu un buon afflusso di pubblico, ma pochi hanno apprezzato lo spettacolo con un mondiale ancora da definire. Quest’anno che il titolo è stato assegnato, gli americani si aspettano sfracelli altrimenti anche qui la F.1, come nel prossimo GP del New Jersey (ancora una volta cancellato…) rischia di non attecchire.
“A parte la Ferrari e Schumacher, il resto della truppa di F.1 è formato da perfetti sconosciuti che non sanno alimentare la passione degli sportivi americani. L’organizzazione, quasi perfetta per la Indy 500, per gli standard della F.1 è perfettibile e non molto adeguata, anche se certi meccanismi sono perfettamente oliati”
Formula 1, questa sconosciuta
Quanto sia carente la conoscenza della F.1 lo dimostra un particolare. Mentre a Indianapolis c’era una quantità enorme di tifosi Ferrari, ad Austin conoscono solo il vincitore recente, quindi tutto Red Bull, il rosso Ferrari è relegato ai pochi appassionati veri e agli italiani che non mancano mai. E’ il sintomo della mancanza di cultura automobilistica, di poca confidenza con la F.1 che, per quanto artificiale, non fa breccia negli USA. Mancano i piloti locali, le squadre (vi ricordate la Beatrice con Alan Jones e Patrick Tambay? O Mark Donohue che portò la Penske in F.1? O solo il mito di Mario Andretti e famiglia, un pilota e una dinastia tipicamente made in USA che noi spacciamo ancora per italiano anche se non ha nulla a che spartire con noi tranne nome (e parlata slang?).
Mancano gli sponsor di grosso spicco pronti a fare da cassa di risonanza a questa categoria. Per il pubblico americano del sud le corse sono quelle Nascar, per il centro e nord degli USA è la F.Indy, il resto fenomeno da baraccone europeo. Che qua snobbano perché, a parte la moda e le Ferrari, le Porsche e il cibo (vini compresi) che possono venire dall’Europa, il resto deve essere made in USA. E così si va al circuito come se fosse la sfilata dei marziani, quelli strani che dicono di essere i migliori al mondo e poi scopri che fanno a malapena i 300 orari mentre a Indy anche il più scarso degli americani viaggia a 410 orari di punta.
Circus o zoo?
E sono cose che se a noi fanno ridere, qua fan la differenza. Un esempio? Il primo anno di F.1 a Indianapolis, la carovana di piloti, squadre e giornalisti fu vissuta come una specie di fiera di paese, in cui gli stranieri venivano osservati come animali allo zoo. Anzi, era talmente forte la cultura della 500 Miglia che ogni cosa, ogni commento, erano subito paragonati alla F.1 e guardata con altezzosità da parte di tutti. Dagli addetti ai lavori, tanto per cominciare, ma anche dagli albergatori e ristoratori. Cosa può essere superiore alla 500 Miglia? Si chiedevano e si chiedono ancora gli americani quando fanno il confronto con questa F.1.
Visto però che la curiosità per la prima volta del circo iridato a Indy era tanta, per la prima edizione è stato anche difficile trovare un posto dove dormire a distanze decenti. Gli alberghi sono pochi, sparsi per chilometri e di livello medio basso. Nonostante tutto, però, i prezzi erano saliti alle stelle per cui una stanza di infimo livello in un postaccio a 50-60 km dal circuito, si poteva pagare anche 200 dollari a notte con quattro notti obbligatorie come minimo.
“Il primo anno di F.1 a Indianapolis, la carovana di piloti, squadre e giornalisti fu vissuta come una specie di fiera di paese, in cui gli stranieri venivano osservati come animali allo zoo. Anzi, era talmente forte la cultura della 500 Miglia che ogni cosa, ogni commento, erano subito paragonati alla F.1 e guardata con altezzosità da parte di tutti”
Per fare un confronto, basti dire che nell’edizione del 2003 c’erano disponibili stanze in alberghi a meno di dieci minuti dalla pista ad appena 125 dollari a notte, tasse comprese. Quella volta, però, urgeva trovare una soluzione alternativa e in questo venne in aiuto un anziano collega italiano che da tempo viveva a New York. Ex corrispondente della RAI, corrispondente di tutti o quasi i giornali motoristici nazionali, Lino Mannocchia rappresentava l’ancora di salvezza per chi, a Indianapolis, cercava un posto dove dormire a poco prezzo.
Albergo? Scartato! Si dorme da Miss Varda
“Non ti preoccupare – disse il buon Lino – ho un’amica, Miss Varda, che ti può ospitare. E’ un po’ vecchia ma non farci caso”. Detto da uno che all’epoca aveva 72 anni, era un bell’inizio… L’arzilla Miss Varda da Indianapolis era una specie di potenza locale: niente sfuggiva al suo controllo e in anni, anzi decenni di 500 Miglia, aveva provveduto ad alloggiare presso le famiglie con case nella zona del catino, decine di migliaia di appassionati di corse.
Il buon Lino si prese la briga di telefonare e trovare una sistemazione in vista della gara. Anzi, fece anche di più. Inviò per e-mail tutte le indicazioni per giungere in auto da Chicago a Indianapolis, svincoli e rotatorie comprese. Infatti, a causa dell’interesse per la corsa, quasi tutti i voli (pochi, a dire il vero) per Indianapolis erano al completo, per cui la soluzione alternativa, meno costosa e anche la più pratica, era quella di arrivare in aereo fino a Chicago, poi prendere una macchina a noleggio e spararsi 300 km di nulla nella prateria fino a Indianapolis.
Un po’ per la voglia di scoprire questa parte sconosciuta degli States, un po’ perché non c’era niente di meglio, si optò per questa soluzione. Il viaggio da Chicago a Indianapolis meritava di essere fatto: appena usciti dalla città, presa l’autostrada per l’Indiana, fu come fare un salto nel passato e ad ogni chilometro, ad ogni paesaggio, la domanda era sempre la stessa: ma come hanno fatto i pionieri a conquistare questa nazione? Il rispetto per l’impresa aumentava di chilometro in chilometro ed eravamo solo a 300 km da Chicago mentre per andare in Arizona e ancora più in là di chilometri bisognava farne almeno dieci volte tanti. Altro che New York o le grandi città, per conoscere gli USA bisogna lanciarsi all’avventura della grande provincia, scoprire il modo di vivere dei piccoli villaggi, assaporare gli spazi e gustarsi la musica di sottofondo delle radio locali, perfettamente integrate col paesaggio.
“La voglia di premere l’acceleratore in tanta desolazione era forte, ma proprio come nei film, ecco che dietro a un cartellone pubblicitario si nasconde una macchina blu e bianca della polizia locale. Un caso, forse, invece tre chilometri dopo altro cartello e altra macchina”
American land
In questo anche Austin è perfetta! Solo che questa bella atmosfera svanì di colpo, quando ci si ritrovò nel bel mezzo della prateria, con i grossi camion che procedevano in fila sulla Highway e il silenzio assoluto dalla radio: nessuna stazione era in grado di coprire quella parte che confina fra Indiana e Michigan e nemmeno i telefoni cellulari hanno la copertura del segnale. Per noi che siamo abituati ad essere rintracciabili in ogni istante, trovarsi soli nella natura per niente selvaggia ma decisamente vasta di quella parte degli USA, è stato come un salutare elettrochoc.
La voglia di premere l’acceleratore in tanta desolazione era forte, ma proprio come nei film, ecco che dietro a un cartellone pubblicitario si nasconde una macchina blu e bianca della polizia locale. Un caso, forse, invece tre chilometri dopo altro cartello e altra macchina. Da quelle parti si vede non hanno niente di meglio da fare che controllare la velocità di auto e camion. Per trecento chilometri non si è visto nessuno, ma quelle due pattuglie sono state sufficienti per ricordarsi di rispettare le regole. Se ti beccano in pieno deserto, cosa ti faranno in città? E’ questa la domanda che si pongono gli automobilisti locali.
Scusi, per Allison Avenue?
Giunto a Indianapolis bisognava trovare Allison Avenue, il numero 2225 per la precisione, naturalmente West Av, per dirla tutta. E qui cominciano i problemi, perché a Indianapolis la Allison Avenue è divisa a metà dalla statale 90 che porta all’autostrada e all’aeroporto e da qui all’ingresso del circuito, che poi è uno stadio vero e proprio. Per cui, presa la prima a destra con l’indicazione voluta, ma con la piccola E (che sta per East) si è cominciato un via vai a passo di lumaca per trovare la casetta bassa, col piccolo giardino davanti, senza recinzione e con l’altalena vicino alla finestra della cucina.
Su 1000 case presenti in Allison Avenue, 999 sono fatte così e la millesima invece dell’altalena ha il barbecue. Preso il coraggio a due mani e fermata una anziana coppia che stava scaricando le borse della spesa dal pick up, invece di una risposta è cominciata una serie di domande: “Chi cerca? Da dove arriva? Quando è arrivato? E’ qui per la corsa? Chi le ha dato il numero di Miss Varda?” e via di questo passo. Poi, alla fine, si è scoperto che per andare in Allison Avenue West, 2225, bisognava andare in fondo al viale, prendere la prima rotatoria, invertire il senso di marcia e infilarsi sotto al ponte e poi riprendere Allison Avenue dal lato opposto.
“Le regole a casa erano semplici: doccia entro le ore 7 del mattino, rientro a casa entro le ore 20. Per 50 dollari a notte e l’autodromo ad appena 800 metri, invece che pagare quattro volte tanto e finire a cinquanta chilometri, la cosa era fattibilissima. Anche se praticamente impossibile da rispettare negli orari”
Dopo un’ora e trentasette minuti di ricerche, alle 19 e 56 i signori Kim e Cheryl mi stavano aspettando davanti alla porta principale. La signora Varda, infatti, si era premurata di smistare le prenotazioni presso le famiglie locali e a quell’ora della giornata, ero l’ultimo arrivato. Gentilissimi, sorriso sulle labbra e uno sguardo all’orologio, Kim e Cheryl indicarono la stanza del figlio, un ragazzino brufoloso che guardava con odio l’occupante e senza nascondere lo sprezzo per l’invasore italiano, si riprese un paio di peluche, alcune targhe vinte giocando a baseball con la scuola e sbatté la porta in faccia andandosene.
Rispettare le regole (?)
Le regole a casa erano semplici: doccia entro le ore 7 del mattino, rientro a casa entro le ore 20. Per 50 dollari a notte e l’autodromo ad appena 800 metri, invece che pagare quattro volte tanto e finire a cinquanta chilometri, la cosa era fattibilissima. Anche se praticamente impossibile da rispettare negli orari: col lavoro da fare, i ristoranti da trovare e un minimo di relax dopo una giornata pesantissima, sforare gli orari imposti dalla famiglia era il minimo.
Finita la gara, inviati i servizi in tutta fretta a causa delle sette ore di fuso orario con l’Italia, si uscì in cerca di un ristorante dove mangiare e anche qui, miracolo, l’impresa riuscì rapidamente visto che tutti i tifosi se ne erano andati. Il centro di Indianapolis sembrava un deserto dopo l’invasione dei giorni precedenti. Anche se c’è da dire che i 200 mila paganti non riuscirono a riempire le tribune del catino, pronte ad accogliere gli oltre 500 mila spettatori della 500 Miglia.
Invece, entrati in un ristorante giapponese dove erano presenti tutti i nipponici della F.1, si scoprì la sorpresa: invece che trasmettere la corsa in diretta, le TV americane trasmisero una prova del campionato Stock Car, lasciando la F.1 in seconda serata e in una sorta di ampio servizio registrato con tutte le pause tagliate e le interviste montate durante la gara.
Ecco, il rischio è questo. Anche se vorreste vedere la gara in TV, è più facile che ci sia una prova Nascar o altro in diretta piuttosto che il GP. Tanto per dirne una, USA Today il lunedì dopo Indianapolis del 2000, prima gara dell’era moderna, invece di mettere l’articolo col vincitore della corsa scrisse che sabato c’erano state le qualifiche del GP che si sarebbe corso la domenica. Non disse chi fece la pole. E nemmeno che la gara era finita e chi l’aveva vinta. E’ l’altra faccia USA sull’interesse F.1 da queste parti. Unica consolazione: se amate le bistecche, meglio di queste non ne esistono al mondo!