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Ford è l’ultimo costruttore in ordine di tempo ad essere oggetto di voci su un possibile approdo in Formula 1. Stando a rumor insistenti, la casa dell’Ovale Blu starebbe valutando l’ingresso nel Circus a partire dalla stagione 2026, crocevia che vedrà l’introduzione di una nuova power unit senza MGU-H. Per ora il marchio americano ha scelto di non commentare – e quindi nemmeno smentire – le indiscrezioni. Ha invece presentato la sua iscrizione come motorista per il 2026 Honda. Protagonista di un rocambolesco addio alla F1 nel momento in cui le sue power unit stavano centrando l’iniziale obiettivo mondiale, la casa giapponese ha deciso di perfezionare l’iscrizione, lasciando aperta la possibilità di rientrare ufficialmente nella mischia.
Il regolamento tecnico per le power unit elaborato per il 2026, volto a una semplificazione dei propulsori per ingolosire nuovi costruttori, sembra aver sortito l’effetto sperato, visto che anche Audi ha annunciato il suo ingresso in F1 come team ufficiale, con un motore prodotto in proprio già in fase di sviluppo a Neuburg. La vera domanda, però, è un’altra: i nuovi arrivati riusciranno a lasciare il segno? I grandi nomi dell’automotive hanno avuto fortune alterne negli ultimi vent’anni nel Circus.
Due grandi costruttori giapponesi, Honda e Toyota, ci insegnano che non sempre a fronte di investimenti titanici si ottengono risultati degni di nota. Dopo essere tornata a fornire motori alla BAR nel 2000, a fine 2005 Honda annunciò l’acquisto della quota di maggioranza della scuderia, che l’anno successivo prese il nome del marchio nipponico, diventandone il team ufficiale. Honda non si fermò qui, visto che fornì i motori alla “cuginetta” Super Aguri, una sorta di team B spinto dalla casa giapponese per garantire una collocazione a Takuma Sato, sostituito da Rubens Barrichello a fine 2005.
Dopo una stagione d’esordio convincente, in cui arrivarono alcuni podi e la prima vittoria in carriera di Jenson Button in Ungheria, la Honda non riuscì a fare il salto di qualità. Anzi: il quarto posto nel mondiale costruttori nel 2006 sarebbe rimasto il miglior risultato di quell’avventura. Il picco del 2007 fu il quinto posto di Button in Cina. Nel 2008 Barrichello colse un podio a Silverstone, ma la Honda concluse il mondiale in nona posizione. Dopo aver sacrificato lo sviluppo della RA108 per dedicarsi al cambio regolamentare previsto per il 2008, la Honda decise improvvisamente di lasciare la F1. Ross Brawn rilevò la scuderia dando vita alla Brawn GP, sensazionale Cenerentola per una stagione prima di diventare Mercedes.
A differenza della Honda, Toyota, il cui debutto in F1 come team ufficiale risale al 2002, non riuscì mai a cogliere la vittoria in un GP. Dopo tre stagioni di transizione, la Toyota disputò nel 2005 quella che si sarebbe rivelata la miglior stagione nel Circus, con tre podi di Jarno Trulli, due di Ralf Schumacher e il quarto posto nel costruttori. L’altra grande occasione di Toyota arrivò nel 2009. La scuderia nipponica fu una delle poche a sfruttare sin da subito un’area grigia del regolamento con il doppio diffusore. Fu un vantaggio relativo solo per la prima parte di quella che sarebbe stata l’ultima stagione in F1. Colpita dalla grave crisi economica di quel periodo, a fine 2009 Toyota annunciò il ritiro.
Negli anni Duemila anche altri costruttori tentarono la via della F1. Ford, all’epoca proprietaria di Jaguar, rilevò nel giugno 1999 la Stewart per creare un team con l’effigie del brand inglese, ma motori Ford-Cosworth, sulla falsariga di quello che vediamo oggi con l’Alpine-Renault. Una decisione, questa, che sarebbe stata alla base della decisione di interrompere il progetto a fine 2004. La scelta di coinvolgere Niki Lauda in un ruolo dirigenziale nel 2002 non ebbe i frutti sperati, e, con soli due podi all’attivo dopo cinque stagioni, la casa madre decise che il ritorno all’investimento non valeva la proverbiale candela. A rilevare il team fu la Red Bull. E il resto è storia.
BMW, invece, fornì i motori alla Williams dal 2000 al 2005, rivelandosi una delle poche rivali a riuscire a dare – relativamente, si intende – filo da torcere alla Ferrari nell’epoca d’oro di Michael Schumacher. Gli anni di maggior successo furono il 2002 e il 2003. Stagioni, queste, in cui la Williams BMW colse il secondo posto nel mondiale costruttori. Nel giugno del 2005 la casa dell’Elica scelse una via differente, acquisendo la Sauber. Nel 2008 arrivò la prima vittoria in Canada, grazie al talentuoso Robert Kubica. BMW puntava al mondiale l’anno successivo, ma era destinata a un brusco risveglio. L’inizio di stagione deludente portò la casa tedesca ad annunciare il ritiro dalla categoria a fine 2009, e il team fu ricomprato da Peter Sauber.
La Renault, iridata nel 2005 e nel 2006 con Fernando Alonso, si perse per strada negli anni successivi, e la casa della Losanga decise di conseguenza di ridurre l’impegno alla sola fornitura di motori. Nel 2016 il ritorno come team ufficiale, per ora senza grandi successi. Nulla a che vedere con i fasti della Mercedes, capace di cogliere otto titoli mondiali costruttori consecutivi dal 2014 al 2021, sei iridi piloti con Lewis Hamilton e una con Nico Rosberg. A distinguere la scuderia di Brackley dagli altri team ufficiali della storia recente è indubbiamente la gestione da parte di Daimler.
Anche se Mercedes-Benz Group detiene un terzo delle quote del team, Dieter Zetsche prima e Ola Källenius poi hanno dato ampio margine di manovra a Toto Wollf, garantendo l’indipendenza necessaria a gestire il team senza troppe interferenze. Il numero uno della Mercedes recentemente ha dichiarato a Channel 4 che la casa madre “tiene il guinzaglio molto lungo”. Come a dire che il controllo, ovviamente, c’è. Ma i processi decisionali non diventano elefantiaci, a differenza di altri casi relativamente recenti.
Audi, che ha scelto di rilevare la Sauber e ha recentemente annunciato l’ingaggio come CEO del team di una vecchia conoscenza del gruppo Volkswagen, Andreas Seidl, farebbe bene a seguire l’esempio di Mercedes. Perché se c’è qualcosa che si può imparare dai casi del passato, è che i grandi capitali non bastano per rendere vincente una scuderia dal grande nome nel panorama dell’automotive.