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“Ci sono dei momenti in cui non resta che sopravvivere un giorno alla volta dal punto di vista mentale. Mi è capitato diverse volte nella mia vita adulta”. Sono parole forti, quelle rilasciate da Toto Wolff in una lunga intervista concessa al Guardian, che riportano a sensazioni che chi ha sperimentato problemi legati alla salute mentale conosce bene. Ma quando a mostrare la propria vulnerabilità è uno dei team principal più efferati in un mondo di squali, il messaggio acquista una potenza di fondo maggiore.
Non è la prima volta in cui Wolff si apre riguardo ai traumi che ha vissuto nella sua esistenza, e a come ha imparato ad affrontarli. Ma nell’intervista rilasciata al Guardian scende in profondità, ricordando nei dettagli l’origine di tutto. “Mio padre morì quando avevo 15 anni, ma era malato di cancro al cervello da dieci anni. Da piccolo, mi trovai a prendere il controllo della situazione. Mia madre non era particolarmente presente perché doveva cercare a sua volta di sopravvivere”.
“Mi occupavo io di mia sorella minore. Volevo essere responsabile, e non provare imbarazzo nei confronti dei miei genitori. Volevo il controllo finanziario della mia vita sin da quando avevo otto anni. Non avevo altra scelta”. Un’infanzia dura, in cui Wolff non aveva “tempo per compatirmi”. Ma il momento più difficile, spiega Wolff, “fu veder morire mio padre. Per un bimbo il padre è il proprio idolo, ma da adolescente devi essere in grado di odiarlo per avere un rapporto equilibrato. Io non potei fare nessuna delle due cose”.
Il fatto di aver attraversato dolori fortissimi da bambino, quando “non sei in grado di processarli”, costituisce un trauma che riaffiora “in momenti davvero difficili della vita, come morti, malattie, separazioni”. Ma non nell’ambito del lavoro, in cui Wolff riesce a prosperare. Il vero problema arriva quando scende “dalla ruota del criceto”, "non tanto nella pausa invernale, quanto in quella estiva. Cerco di tenermi occupato, non sono un tipo da vacanze lunghe un mese”. Non che tenersi occupati tenga Wolff alla larga da periodi in cui fatica ad alzarsi da letto, specialmente in momenti in cui i suoi traumi riaffiorano.
“Il mio migliore amico si è ucciso quando avevo 30 anni. Sono cose difficili e penso sempre a lui. Ma bisogna fare pace con quello che è successo”, rivela. Per Wolff, “una volta superati i 50” è diventato più semplice affrontare i suoi demoni. “Non so se ha mai letto Schopenhauer – ha spiegato al giornalista che lo intervistava – ma a suo avviso la vita è una costante sofferenza. Più ci si avvicina alla fine, meglio è. Sento quel sollievo, sono oltre la metà dell’opera”.
È un Toto Wolff spiazzante nella sua onestà, quello che emerge dall’intervista al Guardian. È un effetto voluto. “Desidero eliminare lo stigma riguardo alla salute mentale. Per questo ne parlo”, ha spiegato. Ed è un sollievo pensare a questo candore in un ambiente in cui personaggi come Helmut Marko utilizzano ancora i problemi legati alla psiche come un’arma per cercare di umiliare gli avversari.
Quello che Marko non sembra comprendere è che non c’è nulla di cui vergognarsi nel raccontare le proprie fragilità, soprattutto se si ha la possibilità di raggiungere tante persone. Se uno squalo come Toto Wolff ammette che a volte fatica ad alzarsi dal letto al mattino – e ha cercato aiuto per questo – perché chi vive condizioni invalidanti in silenzio non potrebbe fare lo stesso? È un messaggio molto potente, quello del team principal della Mercedes. Molto più dei graffi di chi i suoi traumi non li ha mai affrontati di petto.