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Antony Noghes per alcuni è soltanto l’ultima curva del circuito del GP di Monaco. In realtà è un omaggio al padre di questa gara e la sua storia merita di essere raccontata.
Era infatti l’inverno del 1928 e nella sede dell’Automobil Club di Monaco, da poco fondato, si cercava il modo di portare turismo e attenzione al Principato. Era l’onda lunga del futurismo di Marinetti, l’uomo e la macchina nelle nuove sfide. In altre località europee, normalmente dove c’erano le terme, di gran moda agli inizi del 900, le gare automobilistiche erano la novità che dava brividi, emozioni e creava eccitazione in un mondo dove, di fatto, la calma e la routine la facevano da padrona. Monaco e il Principato erano in letargo: non c’erano le terme (come a Spa o al Nurburgring per intenderci), c’era il porto e la spiaggia era solo accennata visto il tipo di territorio. Antony Noghes decise che a Monaco si dovesse disputare una gara di auto da corsa, un moderno Grand Prix che desse lustro, creasse attenzione ed eccitazione in quel lembo di terra calmo e pacioso. Raccolse le mappe cittadine, ipotizzò un tracciato e si presentò a Parigi davanti alla corte degli Automobil Club riconosciuti, una sorta di federazione ante litteram. La proposta fu bocciata: Monaco e le sue stradine non erano idonee per un circuito. Mancava un autodromo e la dicitura Grand Prix veniva assegnata a chi potesse mostrare un tracciato moderno e adeguato. Lo era Monza, nata nel 1922, lo erano le strade di Spa e delle terme locali, lo erano quelle del Grand Prix de France.
Antony Noghes non si perse d’animo, studiò ancora le mappe e decise, con le autorità dell’epoca, di spianare la zona attuale delle Piscine per ricavarne una strada e completare un circuito che comprendesse le parti “nobili” del Principato. Il casinò, l’hotel de Paris, la vecchia stazione (poi diventata Loews e poi Fairmont con quel tornantino stretto e infido). C’era il problema nella zona delle piscine attuali: non era tutto piano, c’era un belvedere che sovrastava il piccolo porto. Si mise mano al progetto, si decise di spianare in qualche modo e dal curvone che oggi è sotto al tunnel si raccordava con quella che è l’attuale curva del tabaccaio per fare poi un tornante a destra (dove adesso c’è la Rascasse all’epoca c’era il distributore di benzina, il gasometro per intenderci) e il ritorno sulla via parallela prima di imboccare la salita con la chiesa di Santa Devota. Forte di queste modifiche si ripresentò davanti al consiglio degli Automobil Club per avere il via libera.
Cosa che accadde finalmente il 14 aprile 1929, prima gara del Grand Prix de Monaco. Una storia che prosegue ancora oggi, a distanza di decenni e nonostante alcune edizioni saltate per la guerra e la pandemia. Felice del risultato raggiunto, Noghes aggiunse un’altra perla alla sua collana fatta di determinazione e testardaggine. Una sera, seduto al tavolo dell’Automobil Club di Monaco, discutendo sulle regole internazionali, contestò la norma che prevedeva il via e l’arrivo con la bandiera nazionale. Infatti, quella di Monaco è bianca e rossa, ovvero a seconda della parte visibile al pilota, poteva essere scambiata per vettura lenta (bandiera bianca) o sospensione della gara (bandiera rossa). Serviva qualcosa di unico che sancisse il fine corse. Pensandoci e ripensandoci l’occhio cadde sulla scacchiera su cui stava giocano.
E decise che quella scacchiera sarebbe stata la bandiera di fine corsa. Cosa che da quel momento viene usata ancora oggi ed è diventata il simbolo delle corse automobilistiche. Non solo, partendo da quel principio, alcuni circuiti moderni come Singapore, Baku e Miami, che non hanno in alcuni punti le misure minime imposte dal regolamento, godono della deroga che tanti anni fa fu applicata proprio per Monaco (anche se adeguata agli standard moderni). Un altro motivo per ricordare quell’Antony Noghes e quell’ultima curva che lancia i piloti del GP verso il rettilineo di partenza e arrivo, striscia posta proprio di fronte alla sede dell’Automobil Club di Monaco, là dove tutto nacque…