Per inviarci segnalazioni, foto e video puoi contattarci su info@moto.it
Di questi tempi, una delle attività più in voga è sfogliare gli album dei ricordi. È proprio scorrendo le immagini di uno di questi caleidoscopi che mi sono imbattuto in una foto di Keijo Erik Rosberg, detto Keke. Si era a Montecarlo nel 1997 e il suddetto stava seduto sotto la veranda di un motorhome, nel paddock monegasco, orologio smargiasso al polso, solito sguardo truce, tutto intento ad aspirare voluttuosamente un avana che stava martoriando tra le labbra. Ecco, questa immagine mi è sembrata davvero l’espressione più vera di questo personaggio, che era nato finlandese, ma che, per modi di fare, carattere, atteggiamenti, sembrava di più un rude boscaiolo dell’alta Valle Brembana bergamasca, di quelli che, nei decenni scorsi, se ne andavano in Francia ad abbattere boschi dalla mattina alla sera.
Keijo Erik Rosberg, dicevamo: un pazzo, nel vero e proprio senso del termine. Avevi l’impressione che, di mattina, scendesse sempre dalla parte sbagliata del letto. È stato forse il pilota che abbiamo temuto di più, nel chiedergli un semplice autografo. Solitamente eravamo abbastanza sfacciati, ma con Keke non potevi: aveva sempre, perennemente quello sguardo truce che sconsigliava qualsiasi velleità di avvicinamento. Un cavernicolo, tutto istinto e bestemmie, anche se le bestemmie in finlandese certo non le conoscevamo. Avevamo paura di Keke. Anche se sapeva essere anche un pazzo divertente, in pista: ricordo le prime prove libere del sabato mattina a Imola 1984, giro uno della sessione, in uscita box: Keke, con la sua Williams FW09 affrontò la Tosa al rallentatore, era praticamente fermo.
Una volta a metà curva, probabilmente vide il muro umano della collina della passione, probabilmente lo vide sonnecchioso, oppure tutta quella gente già assiepata lì lo esaltò. Fatto sta che diede brutalmente di acceleratore, il rombo del motore squarciò il cielo e svegliò non solo chi ancora dormiva sotto i teloni in cellophane di fortuna, ma anche gli scoiattoli a chilometri di distanza. Mise la Williams di traverso e, tenendola di traverso, fece almeno duecento metri andando su, piede giù, verso la Piratella. Tutti in piedi, applausi. Capimmo che l’aveva fatto per noi. Per dirci: “Oh, raga, sveglia tutti che oggi c’è il GP San Marino!” Era fatto così, Keijo Erik detto Keke. Mica un tipo facile...
Immagino cosa abbia dovuto sopportare il povero Nico, fin da bambino, con un genitore del genere. Mai visti due piloti, due esseri umani tanto diversi: tanto rude e scostante Keke, tanto gentile, carino, quasi un po’ snob Nico. Il primo sempre arruffato, incazzato, e rubizzo, il secondo pettinatissimo, sorridente, azzimato, quasi pallido. Chissà se volesse davvero fare il pilota, Nico, da piccolo. Oppure si sia ritrovato su un kart, schiaffatovi sopra da un padre despota, che voleva continuare a vivere, a masticare il suo mondo, quello dei motori, nonostante non avesse più l’età. Fatto sta che, mentre il primo faticò molto nelle formule minori e anche all’inizio in F.1, dove esordì con la non immensa Theodore e guidò pure per ATS, Wolf e Fittipaldi, il secondo vinse subito in Formula BMW e poi si aggiudicò pure il primo campionato di GP2 della storia della categoria nel 2005. Costretto a correre o no, aveva della stoffa, il ragazzo...
Entrambi campioni del mondo di F.1, alla fine, credo che il più divertente dei due sia stato proprio Keke. E non solo per quel numero a Imola. Era davvero un istintivo, esprimeva al volante quella voglia, quella grinta tipica di chi ha fame, di chi ha pochi soldi, ma vuole arrivare. E questo lo si percepiva, vedendolo aggredire le staccate, divorarsi certe curve, con la macchina che sembrava portarla lui in spalla, piuttosto che stare seduto nell’abitacolo. Nico andava fortissimo, ma era certamente più compassato del papà. Ha sempre sopravanzato Michael Schumacher, che però era alla fine della carriera in Mercedes, ma poi faticò le proverbiali sette camicie a mettere il muso davanti a quel mostro di Lewis Hamilton, che gli ruppe le scatole non poco anche nelle formule minori. Però, nel duemila sedici ce l’ha fatta. Ed in maniera brillante, non vincendo un solo GP, come suo papà nel millenovecentoottantadue.
Keke e Nico Rosberg, papà e figlio. Ricordo ancora il terrore negli occhi di Nico, quando già in Williams, compiva qualche errore: aveva una paura matta non delle ire del team, ma di quello che poteva dire o fare papà Keke. Era lo stesso terrore che avevamo noi, prima di riuscire, dopo una ventina di tentativi nel corso di un decennio, a ottenere da lui un autografo. Alla fine, anche noi, come Nico, ce l’abbiamo fatta! Abbiamo avuto l’autografo del cavernicolo... scusate... del campione del mondo di F.1 millenovecentoottantadue e abbiamo anche quello di Nico, che ce lo concesse al primo tentativo, chiedendoci pure sorridendo: “Ok, così ragazzi? Buona serata.” Keijo e Nico Rosberg. Due pianeti diversi. Ugualmente protagonisti di tante nostre domeniche felici. Sì, perché, anche senza guidare mai una Ferrari, ci hanno fatto divertire, eccome! Dai, su, fammi fare un tiro di avana, Keke! Sarai anche un burbero, ma adesso sono diventato più grosso io di te!
Beppe Magni