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Ho sempre creduto che Norman Graham Hill non fosse solo un Ufficiale dell’Ordine dell’Impero Britannico, oppure un artista, come lui stesso amava definirsi. Mi ha sempre dato l’impressione di essere un vero e proprio Lord inglese, con quei baffetti sempre tracciati precisi, perennemente ben pettinato e ordinato come appare in qualsiasi immagine che lo ritragga. Credo anche che, qualora ci dovesse essere bisogno di ulteriori indizi per confermare questa parvenza di nobiltà, fosse quasi imparentato con i Principi di Monaco, visto che è toccato proprio a lui, e per ben cinque volte, aprire ufficialmente le danze con la Principessa Grace nel classico gran galà della serata del Gran Premio di Monaco.
In realtà Norman Graham Hill ha dovuto faticare il suo, prima di assurgere alle più alte vette dell’automobilismo da corsa. Tanto per cominciare si laureò ingegnere, dandosi, negli anni universitari, al canottaggio, avendo pure occasione di affiliarsi al London Rowing Club, il cui stemma verrà poi immortalato per sempre sul suo casco nero con i remi bianchi. Arrivò tardi all’automobilismo, avendo conseguito la patente a soli ventiquattro anni. Poi riuscì a farsi assumere da Colin Chapman come meccanico, ma era solo una scusa per poter assurgere all’abitacolo della F.1 della leggendaria casa inglese. Però anche lì faticò non poco ad emergere, fino a che passò alla BRM dell’Ingegnere Tony Rudd, che aveva messo insieme davvero un bel pacchetto, compreso un motore autoctono realmente competitivo. Così il nostro Norman Graham cominciò a vincere, non prima di avere partecipato anche a Le Mans con Porsche nel 1960 e addirittura con una Ferrari nel 1961, senza fortuna.
Un bel tipo eclettico il nostro pilota. Si adattava a qualsiasi situazione e a qualsiasi circostanza, tanto che è l’unico pilota fino ad ora che è riuscito nella impresa di fregiarsi della Triple Crown, avendo vinto il titolo mondiale di F.1 nel 1962 con la BRM e nel 1968 con la Lotus, la 500 Miglia di Indianapolis nel 1966 con una Lola Ford e la 24 ore di Le Mans nel 1972 con la Matra e con Henri Pescarolo, nel giorno della scomparsa dell’amico Bonnier. Certo, contro Jim Clark non ci fu proprio storia: nel periodo in cui spadroneggiò il gigante scozzese non ce ne fu per nessuno, neppure per Norman Graham.
Ma subito dopo la tragica scomparsa del fuoriclasse della Lotus, fu proprio Hill a tornare a vincere, dimostrandosi pronto a raccoglierne il testimone. Così come non mollò dopo il grave incidente occorsogli al GP USA 1969, dove si ruppe entrambe le gambe. Un gran bel personaggio, Norman Graham Hill, che fece pure il costruttore, nella parte finale della sua carriera, ma fece anche l’attore in ben quattro film e pure l’autore di una autobiografia più che brillante. Come credo fosse lui, brillante davvero, a suo agio nelle officine Lotus, come nelle feste monegasche o ai comandi del suo aereo, dove purtroppo nel 1975 trovò la morte.
Tutto un altro personaggio mi è sempre parso il figlio Damon. Alzi la mano chi l’ha mai visto ridere di gusto. Sempre ombroso, triste, anche quando suona la chitarra. Un po’ come il suo stile di guida, da velocissimo regolarista, ma che non ha mai infiammato nessuna platea, tanto era bravo e millimetrico nelle traiettorie da non sbandare quasi mai, da effettuare le minori correzioni possibili, sempre presente a sé stesso, ma senza trasmettere quel brivido che cercano i loggionisti che spendono una fortuna per un biglietto di tribuna. E la spendono proprio per ammirare quei virtuosismi che Damon Graham Devereux Hill ha dimostrato lungo la sua carriera di non avere proprio nelle sue corde. ha cominciato a correre in moto, come il padre, ma poi mamma Bette, che temeva che il pargolo si facesse male, lo convinse a passare alle auto. Dove ha sempre corso senza troppa infamia e senza lode in numerose categorie, fino ad arrivare in F.1.
Si distinse subito come collaudatore della Williams e delle sue micidiali sospensioni attive, contribuendo notevolmente allo sviluppo dell’arma totale di Head e Newey. Il debutto vero e proprio avvenne però con una Brabham Judd, quando la Brabham stessa era già ben oltre il crepuscolo di una luminosissima storia. Nel 1993, promosso in Williams, dove soffiò il posto al nostro Riccardo Patrese, lo ricordo vincitore dei GP di Ungheria, del Belgio e, soprattutto, d’Italia, dove lo ricordo in un bellissima tenzone con Ayrton Senna. Finirono per toccarsi in prima variante, ripartirono attardati. Ma Damon non si diede per vinto e rimontò, sfruttando un ritmo ed una velocità che gli erano innati, magari poco spettacolari, ma efficaci, tanto da portarlo, appunto ad una meritata vittoria finale.
Se a papà Graham capitò di essere contemporaneo di Jim Clark, a Damon andò pure peggio, trovandosi an incrociare le armi con quel figlio di buona donna di Michael Schumacher che, tanto per cominciare, gli scippò il titolo 1994 con una manovra… no comment. Prima però il comandante zero, dal numero di gara che gli fu assegnato dalla FIA, ebbe il merito di tenere a galla il team Williams dopo la tragica vicenda che portò alla scomparsa di Ayrton Senna, suo compagno di squadra. Soprattutto si adattò alla guida di una Williams che, senza più le sospensioni attive, era diventata davvero difficile da condurre e da domare. Damon vinse in Inghilterra, sua patria, e di nuovo in Italia.
Ricordo quel giorno. Al sabato dominarono i dodici cilindri Ferrari. Tutto era pronto per la grande festa rossa. Ma due pit stop sciagurati, prima di Alesi e poi di Berger, spensero i sogni della folla rossa. E chi ti comparve? Il nostro Damon, che rivinse a distanza di un anno il Gran Premio d’Italia. Monza credo gli piacesse molto. Le curve superveloci, le chicane stop and go del circuito brianzolo sembravano esaltare la sua spiccata propensione al ritmo, seppur elevatissimo, alla velocità pura, un po’ alla Sebastian Vettel, per intenderci. Rischiò di rivincere a Monza sia nel 1995 che nel 1996. Nel 1995 fu protagonista di un’altra scaramuccia col mostro Schumacher, stavolta in seconda variante. Ancora adesso è spassosissimo rivedere le foto del tedesco, trattenuto a stento dai commissari, che voleva aggredire Damon nella ghiaia della Roggia a Gran Premio d’Italia in pieno corso.
Nel 1996 formò una coppia perfetta con la Williams FW18, tanto da vincerne addirittura 8, che potevano essere 9 se, a Monza, non avesse centrato malauguratamente le gomme in mezzo alla prima variante. E fu così che il nostro Damon Graham Devereux vinse il mondiale. Ma non lo ricordo sorridere, no. Non so perché. E sì che ne avrebbe avuto ben donde. Forse è il ricordo di Ayrton. Oppure del papà. Sapesse che i due se la stanno spassando, in una gara infinita, un po’ più su di qui, forse, forse, si aprirebbe anche sul suo volto un dolce sorriso…
Beppe Magni