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Da Adelaide a Melbourne. Stesso continente, due mondi diversi. La F.1 in Australia scopre un nuovo mondo, nuovi colori, nuovi sapori. Non esiste niente di paragonabile nelle corse europee e all’interno della stessa Australia la differenza fra la corsa d’Adelaide e quella di Melbourne è abissale. Fino al 1995 la piccola città d’Adelaide ha avuto il privilegio di ospitare il GP d’Australia di F.1 sfruttando una parte dell’ippodromo cittadino e alcune strade attorno a lui.
Il tracciato era abbastanza corto, appena 3.780 metri, ma tortuoso al punto da mandare in bambola i piloti che per due ore dovevano pensare a muretti e dai cordoli infidi messi qua e là per rallentare il percorso. Dal 10 marzo 1996 si corre a Melbourne su un tracciato di 5.302 metri ricavato all’interno d’Albert Park nella zona sud, nel quartiere S.Kilda, della città australiana. Pole position di Jacques Villeneuve al debutto in F.1: come dimenticarlo?
La prima volta che mi parlarono dell’Australia mi descrissero i disagi del lungo viaggio. Diceva Piercarlo Ghinzani, pilota di Osella, Ligier, Toleman in F.1, col quale esiste un rapporto d’amicizia che affonda le radici ai tempi della F.3: "Sali e scendi da un aereo, fai lunghe ore di volo, ma quello che ti ammazza è l’ultimo tratto. Quando da Sidney prendi l’aereo per Adelaide, le ultime due ore non passano mai. Arrivi che sei cotto".
La prima volta non si scorda mai
La prima volta fu nel 1990. Ultima domenica d’ottobre. L’agenzia di viaggi di Modena aveva dovuto combinare tutto all’ultimo momento. In Giappone, due settimane prima, il mondiale si era concluso con la tamponata di Senna ai danni di Prost. Forse non era il caso di andare fino a Adelaide, ma l’episodio aveva creato tante polemiche che la presenza di un inviato sul posto era d’obbligo.
Partii da Linate che era una fredda domenica d’ottobre, l’ultima, abbigliato di tutto punto: maglione di lana, giacca a vento, scarponi. La pioggia fitta rendeva ancora più triste Milano, ma al pensiero di una settimana al caldo dell’Australia, di fronte all’eccitazione di poter dire agli amici: “Vado ad Adelaide” e sentirsi rispondere “io trombo invece l’Adalgisa” metteva tutto in secondo piano.
C’era però un piccolo inghippo da superare, ma lo avrei scoperto strada facendo. In un primo tempo non avevo dato peso a Claudia, la ragazza della Soltur Viaggi di Modena, che mi aveva detto di aver dovuto fare tutto di fretta e di non arrabbiarmi. Boh, chissà cosa avrà voluto dire. Partenza, volo Alitalia in perfetto orario e atterraggio a Londra alle 11:30 del mattino ora locale. Dal Terminal 2 di corsa mi reco al Terminal 4, dove partono i voli intercontinentali. Fra bus e passerelle, con computer e borsone a tracollo, valigia etichettata per Adelaide ma che per qualche strano motivo mi hanno fatto ritirare all’arrivo, mi fiondo nel terminal e vado dritto al banco del check in della Singapore Airlines.
Le sorprese inaspettate non sono sempre le più belle
Mostro i biglietti, il passaporto col visto, carico la valigia sul nastro ma l’addetto, un armadio di 150 kg, tutto nero, compresa la divisa, mi rende il tutto e mi dice di aspettare, che c’è tempo. In un inglese approssimativo, ma sufficiente per farsi capire, gli chiedo perché, perché il volo è previsto per le 12:30, quindi entro un’ora. Mi prende il biglietto, mi fa notare un piccolo particolare: alla voce 12:30 ci sono due lettere, p e m, che sta per Post Meridian, ovvero di sera. Scopro il primo inghippo che l’agenzia di Modena non mi ha detto: da Milano sono partito in orario, peccato che a Londra ho dovuto mettere in conto oltre 12 ore di attesa perché il volo per Singapore parte soltanto dopo la mezzanotte! Telefono infuriato all’agenzia, Claudia non si fa trovare ma una sua collega mi dice che “Era l’unico volo disponibile fra Milano e Londra e quindi abbiamo preso quello”.
“Scopro il primo inghippo che l’agenzia di Modena non mi ha detto: da Milano sono partito in orario, peccato che a Londra ho dovuto mettere in conto oltre 12 ore di attesa perché il volo per Singapore parte soltanto dopo la mezzanotte!”
Storie, con otto voli al giorno Alitalia e altrettanti British figurarsi se non ce n’era uno in un orario decente. Faccio buon viso a cattivo gioco e decido per un colpo di vita. Lascio i bagagli in custodia, esco e prendo un taxi al volo e con fare innocente dico all’autista: “Mi porti in centro a fare un giro”. Il viso del conducente s’illumina, scoprirò dopo perché, e mi porta in centro a Londra, mostrandomi tutti gli angoli più belli, il Tamigi, Buckingham Palace, la City. Dopo un paio d’ore in giro mi chiede se voglio tornare in aeroporto. Dico di sì. Al momento del conto mi fa l’occhiolino e mi dice: “Per lei tariffa speciale”. Pago, chiedo la ricevuta, e me ne vado. Faccio una botta di conti: ho pagato 138 sterline, che al cambio dell’epoca erano poco meno di 400 mila lire e a momenti mi viene un accidente.
Con che coraggio avrei presentato la nota spese al ritorno? Tormentato da questo dubbio, mangio qualcosa, leggo un libro e intanto giro tutto l’aeroporto, imparando a memoria tutti gli anfratti nascosti. Arriva finalmente l’ora dell’imbarco. Al check in c’è sempre il solito addetto vestito da armadio a quattro ante che finalmente mi sorride, appiccica una etichetta sulla valigia, una gli resta in mano, cerca di riattaccarla, mi dice qualcosa che non capisco ma a quel punto non vedo l’ora di salire sul 747 serie 400 della Singapore Airlines che decolla all’una e dieci minuti di notte. Il volo è tranquillo, ma dormo poco per l’eccitazione alla scoperta dell’ignoto.
“Arrivo a Singapore dopo oltre 12 ore di viaggio, scendo dall’aereo e cerco sui video l’uscita per la coincidenza verso Sidney, volo operato dalla Qantas Airlines”
Singapore: l'Odissea nell'Odissea
Arrivo a Singapore dopo oltre 12 ore di viaggio, scendo dall’aereo e cerco sui video l’uscita per la coincidenza verso Sidney, volo operato dalla Qantas Airlines. Districarsi nel dedalo dell’aeroporto di Singapore senza averlo mai visto prima è un’impresa. Negozi che offrono di tutto, video accesi che trasmettono musica, gag in lingua originale di qualche comico locale e l’altoparlante che ripete sempre la stessa frase: “Urgent, Mr schhehhhshareonni gate number five”.
Arrivo all’imbarco quando mancano pochi minuti alla chiusura del volo per Sidney e appena mostro il biglietto per fare la carta d’imbarco, due energumeni mi prendono da parte, mi dicono qualcosa in un inglese peggiore del mio e mi scortano in un locale chiuso in mezzo al personale di servizio. Comincio ad avere paura, non so cosa sia successo e perché ce l’hanno con me. “E’ un’ora che la stiamo chiamando all’altoparlante e lei non ha risposto” mi rimprovera il tizio col mitra. Il Mr shche e vattelapesca ero io…
Comincia a fare caldo, un caldo bestia e umido che fa sudare. L’aria condizionata dell’aeroporto è un lontano ricordo, il maglione di lana, gli scarponi e tutto il vestiario perfetto per Milano non lo sono per Singapore: il caldo è umido, ma quando un omino con la divisa e il mitra apre la porta di un hangar che dà direttamente sulla pista dell’aeroporto, una ventata di aria bollente e bagnata si incolla ai capelli. L’uomo comincia a fare segno verso le valige: ce ne sono un centinaio per terra, tutte sparse in maniera disordinata e mi incita nella ricerca. Comincio a capire che deve essere successo qualcosa al mio bagaglio e quando vedo la mia valigia la prendo e la porto con me.
L’altro energumeno mi ferma, mi prende il biglietto dalla mano e mi toglie la valigia. Mi riaccompagnano alla porta di imbarco dove mi aspetta una hostess, che probabilmente prima lavorava in qualche miniera di carbone dove spingeva i carrelli. Entro dalla porta anteriore del 747 bianco e rosso, penso di sistemarmi nelle file davanti, ho visto un sette sulla carta di imbarco, ma sempre la cerbera mi accompagna in fondo. Era la fila sette zero, ovvero settanta... L’aereo è in ritardo di 45 minuti e non vi dico le facce e gli sguardi d’odio dei passeggeri costretti all’attesa quando, mogio mogio, mi sto dirigendo verso il mio posto. Neanche a farlo apposta, ultima fila, corridoio, a fianco delle toilet…
Il commento più benevolo è stato: “Sarà come al solito un italiano”. Passano altre dieci ore di volo, l’Australia è un deserto continuo: dal finestrino dell’aereo scorrono chilometri e chilometri di deserto rosso con vaste pozze bianche, ricordo di laghi o mari, evaporati in chiazze di sale sparse qua e là. All’improvviso, nell’incerta luce dell’alba, ecco comparire la baia di Sidney. Stupenda, si intuisce una città meravigliosa, con tanti puntini bianchi che prendono la forma di imbarcazioni man mano che l’aereo comincia la discesa verso l’aeroporto.
Un singolare benvenuto
Manca poco all’atterraggio quando scopro il modo di dare il benvenuto agli stranieri in Australia: le hostess cominciano a spruzzare insetticida dappertutto, in alto, in basso e quando la cerbera arriva alla mia altezza, mi spruzza pure in faccia “E’ la disinfestazione prima di arrivare” mi dice il vicino di posto. Ricapitolando: due ore di volo da Milano a Londra, 12 ore di attesa, altre 12 ore di volo, due ore di transito a Singapore, 10 ore di volo, più nove ore di fuso orario, in totale fanno la bellezza di 47 ore di viaggio. E non sono ancora arrivato ad Adelaide.
“Due ore di volo da Milano a Londra, 12 ore di attesa, altre 12 ore di volo, due ore di transito a Singapore, 10 ore di volo, più nove ore di fuso orario, in totale fanno la bellezza di 47 ore di viaggio. E non sono ancora arrivato ad Adelaide”
I controlli doganali a Sidney sono lenti, meticolosi, stressanti. L’inglese parlato dai poliziotti quasi incomprensibile col loro accento “Aussie” come lo chiamano da quelle parti. Mi avvio sempre più stanco verso l’uscita per imbarcarmi sul volo per Adelaide, ma appena ritiro la valigia scopro un altro inghippo: i voli interni partono da un altro aeroporto. Vorrei mettermi a piangere quando un addetto alle pulizie mi vede sconsolato e mi chiede: “Paisà, ma tu vieni dall’Italia?”. Alla mia risposta affermativa, mi avvicina e mi chiede cosa succede da noi, come vanno le cose, che cosa fa il Milan e se la Juve è diventata più forte.
Italiani nel mondo
Rispondo alla rinfusa, ma lui è contento, mi prende in mano la valigia, mi accompagna all’uscita, fa un fischio a un tassista e gli dice: “Chisto è nu paisà che deve d’annà a Adelaide, mo portalo al terminale nazionale”. Non ci capisco più niente, ma il tassista è gentile, mi accompagna davanti al banco del check in e mi chiede di salutare l’Italia appena torno. Non si fa pagare e io scopro che mancano ancora quattro ore prima del volo per Adelaide. Prendo un caffè al bar dell’aeroporto, metto sei bustine di zucchero, un bicchiere di latte e un biscotto per dare un sapore a quello che sto bevendo e che loro chiamano caffè, e aspetto con calma. Quando finalmente si parte per Adelaide e mentre sono in volo mi tornano in mente le parole di Ghinzani e vorrei scendere dall’aereo, mettermi a urlare, ma sono stravolto. Il peggio, però, deve ancora arrivare.
Una volta atterrato ad Adelaide, noleggio una macchina e cerco di capire dove dovrei andare a dormire. E’ un residence e al pensiero delle parole di Claudia, “Abbiamo dovuto fare di fretta” e al ricordo del viaggio appena concluso, comincio a preoccuparmi. Decido di chiamare un taxi e farmi scortare fino al residence. L’autista mi guarda, si mette a ridere, mi fa segno di seguirlo. Giriamo attorno all’aeroporto, poi si ferma dall’altra parte della strada, un centinaio di metri più avanti di dove l’avevo chiamato e mi fa cenno che la mia destinazione è quella: “Ten dollars, please” dieci dollari, per favore, è il costo della corsa.
“Non faccio in tempo a chiamare il giornale che il Direttore mi urla dalla cornetta: “Ma dove sei finito che c’era da chiudere il sedicesimo e non hai scritto una riga? Mo’ datti na mossa e manda della roba che siamo in ritardo bestia”. Click”
Non ho il coraggio di replicare. Scendo dalla macchina, vado alla reception e incontro la ragazza più bella che abbia incontrato che con fare angelico mi dice: “La stavamo aspettando ieri, visto che non è arrivato, abbiamo ceduto la sua stanza ad altri clienti. Se aspetta un paio d’ore le troviamo una sistemazione”. Distrutto nel fisico, fiaccato nel morale, non ho la forza di reagire. Quando mi trovano la stanza, la prima cosa che faccio è telefonare a casa per dire che sono arrivato.
All’epoca i cellulari non esistevano e le comunicazioni non erano così facili come oggi. Ma non faccio in tempo a chiamare il giornale che il Direttore mi urla dalla cornetta: “Ma dove cazzo sei finito che c’era da chiudere il sedicesimo e non hai scritto una riga? Mo’ datti na mossa e manda della roba che siamo in ritardo bestia”. Click. Faccio una doccia, esco e porto con me il computer per scrivere i primi pezzi. Arrivo al circuito, che non è un circuito ma un dedalo di strade con muretti e guard rail, mangio qualcosa e mi reco nei box.
Oltre al danno la beffa
Appena mi vedono alcuni meccanici della Ferrari, mi chiedono se ho con me dei giornali italiani e poi uno mi fa: “Soccia che culo che sei stato a casa, noi qui a romperci sulla barriera corallina, una settimana che non ti dico, il sole che scottava, la pelle a brandelli, non vediamo l’ora di tornare”. A quel punto ho capito che sarei potuto diventare un omicida e che l’assassinio, in certi casi, è ampiamente giustificato.
Se chiedete alla Soltur Viaggi di Modena di un certo giornalista mandato in Australia nel '90, vi risponderanno ancora oggi che si ricordano perfettamente quell’episodio. Me lo ha confessato il titolare, incontrato per caso qualche tempo fa: “Ah ma lei è quello dell’Australia, ma lo sa che in agenzia parliamo ancora di lei?”. Altro che GP in pista, già arrivarci a Melbourne o zone limitrofe è un successo. Ma se pensi che devi anche ritornare, allora…