F1: Mattia Binotto e John Elkann, la solitudine dei numeri primi

F1: Mattia Binotto e John Elkann, la solitudine dei numeri primi
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Il nostro inviato F1, Paolo Ciccarone, ci svela i retroscena dell'addio di Mattia Binotto alla Ferrari
4 dicembre 2022

Mattia Binotto e John Elkann, ovvero quando colpisce la solitudine dei numeri uno. I problemi? Più umani che tecnici. Di relazione, caratteriali, di visione e filosofia di cosa vuol dire lavoro di gruppo. Da un lato un presidente silenzioso, John Elkann, poco visibile, ma molto attento a tutti gli spifferi dei corridoi di Maranello. Dall'altra Mattia Binotto, uno che quei corridoi li frequentava da 28 anni e che ha scalato tutti i gradini della carriera possibile là dentro: da stagista per il reparto motori alla responsabilità del reparto, da direttore tecnico a responsabile di tutta la gestione sportiva. Segni particolari: un fossato a dividerli. Riempiti di coccodrilli a difendere posizioni a volte indifendibili.

E più saliva Binotto, più era solo. O si sentiva tale. Mostrando un lato del carattere e della sua personalità che, alla lunga, gli si sono ritorti contro. Mentre dall'altro lato c'era il silenzio. Troppo solo il vertice di Maranello, una tradizione di presidenti presenti e a volte ingombranti, ma reali. Da Enzo Ferrari a Luca di Montezemolo per arrivare a Sergio Marchionne. Urla il lunedì mattina quando andava male, pugni sul tavolo durante la settimana a chiedere i perché. Adesso la presidenza è silente. Indecifrabile, come lo è la questione generale, dalla Juventus a Stellantis, dalla famiglia e i relativi contenziosi ereditari, alla Ferrari. Con le due eccezioni, Ferrari e Juve, che ogni domenica sono sotto gli occhi di tutti e visibili nell'unico metro di paragone accettabile nello sport: o vinci o perdi. Più spesso questa seconda opzione rispetto alla prima.

Più fronti da seguire da un lato, forse troppi per un uomo solo, alla resa dei conti di una stagione che doveva essere quella del riscatto, dopo 15 anni di magre, di occasioni sciupate, di prestazioni sotto il minimo sindacale. La Ferrari come eccellenza di una nazione, ma anche lo specchio di come questa nazione gestisce le cose. Un potenziale enorme, una storia unica, un blasone indescrivibile, messo alla berlina da un pit stop sbagliato (e può succedere), ma anche da scelte discutibili, partire con le gomme da bagnato su asfalto asciutto (vedi Brasile) e poi difendere questa scelta sbagliata a tutti i costi. Andare oltre l'evidenza, ecco uno degli errori di Binotto, uomo solo al comando, circondato da fedelissimi che per non urtare il capo, avevano il sì sulle labbra a disposizione h24. E questo, alla lunga, non porta risultati. Non mette in evidenza i limiti e le proposte per migliorare.

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Il non muoversi per timore di rompere un equilibrio inesistente, ecco il vero errore della gestione Binotto. Perché la F.1 è dinamismo, rischio, azzardo: vedi Mercedes, si tenta, si sbaglia, si corregge. A Maranello no: non si tenta, così se si sbaglia non è colpa di nessuno. La differenza sta tutta qua. Da un lato, vedi Red Bull che dopo sette anni di sconfitte Mercedes, con la stessa dirigenza, stessi tecnici, stessi piloti, hanno risalito la china. A Maranello no: Domenicali, Mattiacci, Arrivabene e Binotto adesso, quattro team principal in otto anni, roba da impero romano alla successione al vertice. Ecco, il vertice: da Montezemolo, uomo perfetto di una stagione di successi a Marchionne, il duro con una visione personale, ma sempre un punto di riferimento, e ora John Elkann, il presidente che c'è ma non si vede. Ma agisce duro, deciso e senza appelli. Impensabile decida di far fuori una pedina importante come Binotto senza avere già in mano una alternativa. Una visione di dove andare, cosa fare e con chi. Ben sapendo che chiunque metterà in quella posizione, dovrà fare meglio di un secondo posto. E questa non è certamente una cosa facile per chiunque in quella posizione.

Una stagione partita trionfale, con vittorie e pole position, una squadra che sembrava perfetta, diventata una armata Brancaleone da metà stagione in poi. Perché? Stessi uomini al muretto, stessi piloti al volante, stessa macchina in pista. Risultati completamente differenti. Il conto non torna. E il paradosso è che le dimissioni (spontanee? Non sembra dal comunicato ufficiale, dove spicca il silenzio del presidente e le parole al miele di Benedetto Vigna, l'amministratore delegato di Ferrari) arrivano al termine della miglior stagione di Binotto a capo della Ferrari F.1. Un mistero buffo, come è tale la successione. Perché in F.1 cambiare allenatore non porta subito risultati. E dire che la figura in sostituzione di Binotto verrà individuata entro breve tempo, fa pensare a una serie di eventi improvvisi, ripicche personali, di un gioco delle parti in cui, alla fine, ci rimette il blasone e la squadra.

Coi mal di pancia dei piloti, coi tecnici insicuri del loro futuro, di un progetto da completare, rifinire e rendere vincente fin dal 2023. O forse no. Quando John Elkann ha dichiarato che vuole una Ferrari vincente entro il 2026, probabilmente aveva già nella mente questo scenario, consapevole di scelte e decisioni che avrebbero spostato in là lo scenario. E coi piloti Leclerc e Sainz che scalpitano, la Ferrari ha bisogno di tempo ma il tempo, in F.1, è un lusso che nessuno può permettersi, anche se hai un blasone, una storia e una tradizione decennale. Ma le squadre, le aziende, sono fatte di uomini, coi loro pregi e difetti. E in questo caso più che i primi, sembra il dominio dei secondi. Con un finale amaro.

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