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C'è mancato poco che i titoli di coda fossero più lunghi di tutta la storia di Mattia Binotto in Ferrari e che per leggere la parola fine, si sia aspettato molto. Anzi troppo, visto che da due settimane le voci si rincorrevano così come le smentite che venivano poi smentite in un secondo tempo. Un pasticcio, frutto di una situazione complessa e caotica in cui i rapporti umani sono venuti prima di quelli professionali, dove i caratteri delle persone si sono scontrate con la realtà dei fatti. Mattia Binotto lascia la Ferrari dopo 28 anni (uno in più rispetto a Stefano Domenicali, transfuga nel 2014) e lo fa dopo la miglior stagione disputata da quando l'ingegnere svizzero ha preso il comando, anno 2019.
La Ferrari di oggi come il periodo imperiale romano: le successioni erano così frequenti, al punto da avere due imperatori all'anno, o anche tre. La differenza è che all'epoca su 54 imperatori, 51 morirono di morte violenta, il resto si ammalò o ritirò a vita privata. Cambia lo scenario, ma i coltelli metaforici sono ancora nell'aria e l'ennesima vittima della gestione di Maranello lascia il palcoscenico. Dal 2014 ad oggi sono stati infatti 3 i presidenti (Montezemolo, Marchionne ed Elkann) e 4 i team principal: uno ogni due anni, in media. Da Domenicali a Mattiacci (sei mesi, record assoluto) da Arrivabene a Binotto. Il guaio è che all'orizzonte non si vede un Ottaviano in grado di garantire quella stabilità necessaria a una squadra di F.1.
Perché se le stagioni 2020 e 2021 sono state deludenti, anche per via di un accordo segreto che è ancora indigesto a tanti, il 2022 doveva rappresentare l'anno del riscatto. Che è stato parziale, perché definire deludente una stagione con 4 vittorie e 11 pole position, vuol dire essere poco obiettivi. Il problema è che il secondo posto non era contemplato e qui nascono i problemi di Binotto. Non tanto aver perso delle gare, perché ci sta, succede e gli altri non sono dei dilettanti allo sbaraglio, quanto non aver voluto affrontare le cose con il piglio giusto, ammettere gli errori evidenti, mostrare di voler intervenire mettendoci mano. Colpa del carattere, di uno che non si fida di nessuno e che preferisce avere attorno dei fedelissimi piuttosto che bravissimi anche se ingestibili (vedi Simone Resta...). Una filosofia di gestione che ha fatto di lui la vittima, perché ai piano alti, leggi presidente, vige lo stesso meccanismo.
E così, in un clima in cui nessuno muove un dito per paura di sbagliare ed essere preso di mira, in cui meglio fare gruppo e andare avanti così, alla fine il meccanismo si è rotto. La figura di Binotto, in Ferrari dal 1995, è stata ridimensionata al punto che sui social, in un recente sondaggio, il 75 per cento dei tifosi lo voleva fuori dalla rossa. Un plebiscito, ingiustificato dalla realtà ma solo dalla percezione che fosse lui il colpevole di tutti i mali, di tutti gli errori, compresi quelli dei piloti, mentre in realtà Binotto era un uomo solo al comando e più si sentiva solo, più si isolava, vedeva spettri dove non c'erano e chi doveva dargli supporto, non c'era. Alle prese con altri fantasmi personali, situazioni complicate di famiglia, industriale, di relazione. Una frittata.
Ingiustificata dalla sconfitta sul campo, perché alla Red Bull, per fare un esempio, prima di vincere ancora un mondiale, hanno aspettato 7 anni di trionfi Mercedes. E adesso, viene da chiedersi? Non lasciano tranquille le parole del comunicato, in cui si dice che verrà individuata entro fine anno la figura sostitutiva di Binotto. Quando accadono certe cose, dovresti averla già pronta, per cui o è persona impegnata in altro ambito (e se è del giro F.1 non può liberarsi dall'oggi al domani ma deve aspettare almeno 6 mesi di gardening, come dicono gli inglesi) oppure si naviga per tentativi. Che è peggio ancora. In tutto questo il lavoro 2023 è stato già impostato, gli uomini chiave saranno sempre gli stessi, i progetti tecnici pure, per cui ogni tentativo di cambiamento, viene rimandato al 2024. Come dire perdere altro tempo. Un pasticcio davvero. Che il blasone Ferrari non merita.